Quarant’anni fa per 3 giorni l’Italia si fermò: gli occhi increduli di 25 milioni di italiani rimasero incollati davanti alla tv aggrappandosi alla speranza che i disperati tentativi dei soccorritori potessero salvare il piccolo Alfredino Rampi, il bambino di 6 anni caduto in un pozzo artesiano a Vermicino, vicino a Frascati.
“Volevamo vedere un fatto di vita, e abbiamo visto un fatto di morte. Ci domanderemo a lungo prossimamente a cosa è servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare. E’ stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo: 60 ore di lotta invano per Alfredo Rampi“: con queste parole il giornalista Giancarlo Santalmassi, durante l’edizione straordinaria del TG2 del 13 giugno 1981 annunciò il tragico epilogo della vicenda, un dramma che l’Italia non ha mai dimenticato.
Incidente di Vermicino: cosa è accaduto tra il 10 e il 13 giugno 1981
Il 10 giugno del 1981 a Vermicino, in una campagna vicino a Frascati, Alfredino Rampi, 6 anni, stava tornando da una passeggiata in campagna con la famiglia, quando chiese e ottenne di poter proseguire da solo il cammino verso casa. Giunti a casa i genitori non lo trovarono e scattarono subito le ricerche, che coinvolsero anche le forze dell’ordine. Alla fine si scoprì che il piccolo era caduto in un pozzo artesiano (pozzo in cui le acque sotterranee arrivano in superficie senza ausili meccanici) profondo circa 80 metri e largo 28 cm, recentemente scavato.
Dal pozzo artesiano si avvertiva una flebile voce: “Aiuto mamma“. Alfredino riusciva a comunicare con la madre e i soccorritori, ma con le ore le sue condizioni iniziarono a peggiorare. Sul posto arrivò anche l’allora presidente della Repubblica, Sandro Pertini.
Inizialmente si stimò che Alfredino si trovasse a 36 metri di profondità a causa di una curva o rientranza del pozzo. Le operazioni di salvataggio si rivelarono subito difficilissime: il tentativo di far scendere con una corda una tavoletta alla quale far aggrappare il bambino per tirarlo su si rivelò una pessima decisione. La tavoletta rimase bloccata a 24 metri, quindi molto più in alto rispetto al bambino, e la corda che avrebbe dovuto ritirarla su si spezzò. Il tunnel ne risultò ostruito, ostacolando ulteriormente i soccorsi. Alla fine si decise di optare per la perforazione di un tunnel parallelo ma le caratteristiche del terreno richiesero fino a circa 36 ore di lavoro. Quando finalmente si raggiunse il pozzo, si scoprì che il piccolo, probabilmente a causa delle vibrazioni provocate dagli scavi, era sceso a 60 metri di profondità.
L’unica soluzione rimasta era tentare il recupero con la discesa di qualche volontario. Ci provarono diverse persone: speleologi, esperti di pozzi, persone comuni, nani e persino un contorsionista circense. Nessun tentativo andò a buon fine: nonostante in diverse occasioni si raggiunse il bambino, problemi con l’imbracatura o altri metodi impiegati per tirarlo su fallirono e in una di queste il piccolo Alfredino riportò anche la frattura di un polso.
Angelo Licheri, un volontario, fu tra coloro che coraggiosamente si calarono nel pozzo, e lo fece appeso a una corda, a testa in giù. Per 45 minuti parlò con Alfredino: “Gli ho pulito bocca e gli occhi dal fango“, raccontò tempo dopo. Alla fine “ho dovuto arrendermi, gli ho mandato un bacio e sono tornato su“. L’ultimo disperato tentativo fu quello dello speleologo Donato Caruso che lo raggiunse senza riuscire a prenderlo.
Il 13 giugno, il cuore di Alfredino cessò di battere: morì il 13 giugno, dopo circa 60 ore di angoscia e agonia.
Fu recuperato da minatori l’11 luglio successivo.
Dalla triste vicenda emerse anche l’incapacità dei soccorsi, la mancanza di organizzazione e coordinamento, che alla fine portarono alla nascita della Protezione Civile.