Il Prof. Scafetta: “il clima della Terra segue dei cicli naturali, i modelli dell’IPCC non sono validati scientificamente e non sono affidabili per le previsioni”

Il Prof. Scafetta affronta il tema dell'allarmismo sul clima: "i modelli sui quali è basata la teoria “antropica” del riscaldamento globale osservato dal 1850 al 1900 non sono validati scientificamente, si contraddicono tra di loro e, quindi, non possono essere considerati affidabili per le previsioni future"
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Il Collegio degli Ingegneri di Padova ha promosso il ciclo di conferenze dal titolo “Dialoghi sul Clima” per dare voce ai numerosi punti di vista su questo tema tanto dibattuto. L’obiettivo è promuovere un confronto su ampia scala e sui diversi aspetti del clima, ospitando esperti dei diversi settori al fine di acquisire un quadro complessivo fondato su basi scientifiche.

Nell’appuntamento del 26 Maggio, è intervenuto il Prof. Nicola Scafetta, professore di climatologia all’università di Napoli, che ha affrontato il tema dell’interpretazione del cambiamento climatico, dai modelli climatici al complesso comportamento del sistema solare e gli effetti sul riscaldamento del pianeta.

“Il clima della Terra è sempre cambiato”, esordisce Scafetta, illustrando tutte le oscillazioni del grafico seguente. “Affermare che il clima di oggi sia anomalo rispetto al passato è una cosa che oggettivamente non si vede nei dati, che sono chiarissimi. Il clima della Terra è cambiato tantissimo. Nella storia della Terra, noi viviamo in un punto interglaciale caldo che appartiene ad un’epoca glaciale. Il clima della Terra non solo non è costante ma sembra anche caratterizzato da tutta una serie di oscillazioni naturali, che sono importantissime per poter interpretare correttamente il clima. Ma di tutte queste oscillazioni spesso non si sente parlare”.

Al contrario, nei media si parla molto di questo catastrofismo: il pianeta sarebbe in fiamme, gli scienziati affermerebbero che siamo sulla soglia della catastrofe. Abbiamo attivisti climatici che sostengono che la nostra casa è in fiamme. Abbiamo casi come Al Gore che nel 2007, durante il discorso per il Premo Nobel, affermò che tutta la calotta polare artica si sarebbe sciolta. Tutte profezie catastrofiste che ovviamente non sono avvenute”, sottolinea Scafetta.

Da un punto di vista scientifico, quando si parla di cambiamenti climatici, l’argomento viene affrontato in due modi: da una parte abbiamo i dati climatici e dall’altra parte abbiamo i modelli climatici, che cercano di simulare il sistema climatico, mettendo insieme i vari meccanismi che si intendono essere responsabili di un cambiamento climatico. Dal punto di vista scientifico, questi due approcci vanno confrontati con grande accuratezza. Dal 1850 ad oggi, la temperatura è aumentata di circa 0,9°C, ma le temperature non sono cresciute in modo lineare. Si nota un riscaldamento ma modulato da un’oscillazione di circa 60 anni”, spiega l’esperto, sottolineando nel grafico seguente il periodo di 60 anni dal 1880 al 1940 e quello dal 1940 al 2000.

Dal confronto tra la temperatura e le simulazioni medie dei modelli (grafico seguente), emerge che “l’oscillazione di circa 60 anni non viene riprodotta dai modelli”. “I modelli mostrano un andamento più o meno monotonico, interrotto da alcune eruzioni vulcaniche che si sono susseguite negli ultimi 150 anni. Ma l’oscillazione di 60 anni, molto chiara nei dati, non si vede affatto nei modelli”, spiega Scafetta, che aggiunge: “Si ragiona molto sui modelli, quando in realtà si dovrebbe ragionare sui dati. Dai modelli si deduce che la temperatura, soprattutto se le emissioni continuano a seguire l’andamento degli ultimi tempi, dovrebbe aumentare drasticamente. E si conclude che se la temperatura dovesse raggiungere i 2°C o addirittura 1,5°C sopra il livello preindustriale (1850-1900), il sistema climatico avrebbe molti problemi”, secondo le proiezioni dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) dell’ONU.

Ma questo messaggio è basato sui modelli. Questi modelli usano tutta una serie di meccanismi interni della dinamica dell’atmosfera e dell’oceano e specifici forzanti radiativi, quelli naturali (sole e vulcani) ed quelli antropici (CO₂, aerosols, ecc…). Secondo questi modelli, dal 1850 ad oggi, il riscaldamento sarebbe quasi interamente indotto dalla componente antropica”, aggiunge Scafetta. L’esperto cita il modello CMIP3, pubblicato dall’IPCC nel 2007, e il modello CMIP5, pubblicato nel 2013, secondo i quali, i forzanti naturali non sarebbero stati in grado di indurre alcun riscaldamento dal 1850 al 1900. Quando nei modelli vengono inseriti i forzanti antropici, si osserva il riscaldamento. Quindi da questi modelli, si dovrebbe dedurre che il 100% del riscaldamento dal 1850 al 1900 è antropico. Sulla base di quanto si deduce da questi modelli, spiega Scafetta, il riscaldamento globale viene definito riscaldamento antropico.

Ma dal punto di vista scientifico, questa logica funziona? “I media riportano che il 97% degli scienziati è d’accordo nell’affermare che c’è un riscaldamento antropico del pianeta, tuttavia solo il 55% del pubblico ritiene che gli scienziati siano d’accordo. E quindi i media riportano un “gap” tra quello che gli scienziati direbbero e quello che la gente capisce. In realtà, questi messaggi sono estremamente fasulli perché le cose non sono affatto così. Un sondaggio dell’Associazione dei Meteorologi Americani del 2016 ha chiesto a 4.000 membri dell’associazione cosa ne pensano riguardo al riscaldamento globale. Il 96% afferma che un riscaldamento globale in atto c’è, tuttavia sulla causa di tale riscaldamento, i meteorologi si dividono in tanti gruppi. Soltanto il 29% ritiene che l’uomo abbia contribuito dall’80% al 100%, mentre il restante 70% dei meteorologi ha delle idee molto diverse, che vanno da un contributo maggiormente umano fino ad un contributo quasi totale della natura. Di conseguenza, il 71% dei meteorologi non è affatto d’accordo con la tesi dell’IPCC, secondo cui il 100% del riscaldamento è di natura antropica. E quindi non è assolutamente vero che c’è tutto questo consenso”, spiega Scafetta.

Ma perché non c’è un consenso? Secondo Scafetta, “il motivo è molto semplice”. Nel ragionamento che porta a ritenere che il 100% del riscaldamento sia antropico, c’è una violazione del metodo scientifico perché il metodo scientifico richiede che le ipotesi modellistiche siano confermate dai dati” ma i dati sperimentali non corrispondono alle previsioni dei modelli CMPI3 e CMIP5 sui forzanti naturali. “Quindi la tesi che il 100% del riscaldamento dal 1850 al 1900 è antropico non è validata. La predizione dei modelli climatici che senza l’azione dell’uomo la temperatura globale della superficie del pianeta sarebbe rimasta costante dal periodo pre-industriale ad oggi non è confermata da nessuna evidenza sperimentale. Infatti, non si dispone di un pianeta Terra gemello al nostro e senza l’uomo, su cui prendere le misure sperimentali necessarie per verificare la predizione del modello”, spiega Scafetta. Per validare i modelli climatici, “bisogna dimostrare che i modelli sono in grado di riprodurre la temperatura climatica superficiale del pianeta quando l’uomo non era in grado di alterarla con l’emissione di CO₂ attraverso l’uso dei combustibili fossili ed altro. Vanno studiati i pattern dinamici del clima per verificare che il modello li riproduca correttamente. Alternativamente vanno usati modelli empirici o semiempirici che simulano direttamente gli andamenti dinamici del clima”, aggiunge l’esperto.

Curiosamente nel 2001, l’IPCC cambia opinione perché prima del 2001 riteneva che almeno il 50% del riscaldamento osservato dal 1900 al 2000 fosse naturale”, riporta Scafetta. Il cambiamento dell’IPCC è avvenuto a seguito del ben noto grafico a “mazza da hockey” creato da Michael Mann, secondo cui nell’emisfero settentrionale, le temperature dal Medioevo fino al 1900 erano rimaste più o meno costanti e poi dal 1900 c’è stata una forte impennata, che corrisponderebbe all’impennata delle concentrazioni di gas serra, in particolare anidride carbonica, metano e ossido d’azoto. “Questa sarebbe la giustificazione che validerebbe i modelli dell’IPCC. Tuttavia, quello che non si dice è che l’IPCC ha sostenuto la tesi dell’hockey stick nel 2001, l’ha sostenuta nel 2007 però poi l’ha abbandonata nel 2013. Tanto che ora si parla di “illusione dell’hockey stick”, afferma Scafetta, aggiungendo che poi l’IPCC ha prodotto grafici sulla temperatura che presentano andamenti ciclici, in particolare un grande ciclo millenario, e in cui l’hockey stick scompare (grafico seguente).

I modelli dell’IPCC relativi agli ultimi 1.200 anni falliscono nel riprodurre il Caldo Medievale, che è molto documentato in tutto il mondo, e in parte anche la Piccola Era Glaciale. Quindi si può dire che i modelli non sono in grado di riprodurre i periodi caldi del passato. Inoltre, i modelli non sono in grado di riprodurre neanche l’ottimo dell’Olocene”, spiega Scafetta, che aggiunge come i problemi con questi modelli continuano anche negli ultimi 50 anni, poiché mostrano un trend di riscaldamento nettamente superiore alle osservazioni. “Essenzialmente, i modelli prevedono un forte hotspot sopra l’Equatore a circa 7.000-8.000 metri di quota, ma questo hotspot non si vede nei dati. In genere, questi modelli non riproducono nessuno dei grandi periodi caldi del passato”, sostiene Scafetta.

Ma i modelli non sono in grado di riprodurre nemmeno il caldo dei periodi precedenti, quindi quando in riferimento al riscaldamento contemporaneo, si parla con allarmismo di un aumento della temperatura che non si è mai osservato nella storia dell’umanità, non è assolutamente vero, in quanto la temperatura del pianeta conosce oscillazioni che fanno parte di un grande ciclo millenario, spiega Scafetta. “Il grande ciclo millenario si vede anche sulle Alpi”, spiega l’esperto. Da uno studio dei ghiacciai e del livello della vegetazione delle Alpi, emerge che “nel Medioevo i ghiacciai alpini erano più ristretti di oggi, nel periodo romano erano ancora più ristretti di oggi e andando indietro nel tempo, abbiamo ghiacciai sempre più ristretti durante l’ottimo dell’Olocene”, spiega Scafetta, citando il passaggio di Annibale sulle Alpi con gli elefanti, cosa che oggi non sarebbe possibile, e il ritrovamento di molti tronchi di albero a livelli dove oggi non cresce nulla, ulteriore conferma che in passato il clima era più caldo rispetto ad oggi, favorendo la crescita di vegetazione. Questo studio, inoltre, conferma periodi caldi ogni mille anni negli ultimi 10.000 anni sulle Alpi, “il che significa che ci troviamo di fronte ad un ciclo di circa 1.000 anni ma i modelli non sono in grado di riprodurre nessuno di questi periodi caldi del passato”, continua l’esperto.

Ma allora come facciamo a dire che il periodo caldo contemporaneo sia anomalo? Che sia dovuto all’uomo al 100%? I dati ci dicono cose ben precise sul clima che i modelli non riproducono. Il ciclo millenario dimostra che il riscaldamento osservato dal 1700 ad oggi è stato principalmente indotto da cause naturali. Il fatto che i modelli non lo riproducano implica che questi sono fisicamente erronei e non usano i veri forzanti del clima. Tra i vari forzanti che si possono utilizzare, l’unico che contiene un ciclo millenario è l’attività solare, che si correla con il ciclo millenario delle temperature. Quindi solo il sole è in grado di spiegare il ciclo millenario ma non viene quasi considerato dai modelli climatici. Il sole è chiaramente il principale artefice del cambiamento climatico”, afferma Scafetta, citando due studi che mostrano una ottima correlazione tra i dati solari e alcune serie climatiche, che dimostrano che per migliaia e migliaia di anni, il sole è stato il principale artefice del cambiamento climatico.

In uno studio dello stesso Scafetta, l’esperto ha confrontato le oscillazioni della temperatura globale negli ultimi 150 anni con le oscillazioni fondamentali del sistema solare, osservando che il clima della Terra presenta le stesse oscillazioni del sistema solare. Il Prof. Scafetta ha condotto diversi studi su una serie di oscillazioni astronomiche del sistema solare: per esempio, la variazione dell’eccentricità di Giove si correla perfettamente con i cicli di 60 anni che si osservano nel clima. In questo studio, “le oscillazioni di 60 anni si ritrovano anche nella caduta delle meteore sulla Terra, che hanno un ciclo di 60 anni, e quindi potrebbe esserci un forzante astronomico legato alla caduta di polveri interplanetarie che i modelli ignorano”, spiega Scafetta. Dal confronto tra i modelli dell’IPCC e il modello “sole-astronomia-uomo” basato sulle oscillazioni astronomiche più una componente antropica, “considerando le oscillazioni naturali del sistema, l’effetto antropico viene ridotto notevolmente. Il clima dovrebbe riscaldarsi in futuro però in modo molto più moderato rispetto a quello che dicono i modelli dell’IPCC, anche assumendo gli stessi scenari di emissioni di CO₂ dell’IPCC. Il futuro sarà, dunque, meno allarmistico: ci sarà un riscaldamento, ma sarà molto più moderato”, spiega Scafetta.

Un altro grande problema, illustra l’esperto, è che si osserva una “enorme discrepanza tra i modelli, che mostrano una sensibilità climatica alla CO₂ molto elevata, e i dati sperimentali, che mostrano una bassa sensibilità climatica alla CO₂. Quindi esiste questo grave problema: i modelli dicono una cosa, i dati dicono un’altra. In conclusione, i modelli sui quali è basata la teoria “antropica” del riscaldamento globale osservato dal 1850 al 1900 non sono validati scientificamente, si contraddicono tra di loro e, quindi, non possono essere considerati affidabili per le previsioni future. Le evidenze storiche e paleoclimatiche suggeriscono una variabilità climatica naturale indotta dal sole e da altri fattori astronomici che è molto maggiore di quella predetta dai modelli. L’inclusione di cicli climatici naturali e forme di riscaldamento non climatico, come le isole di calore urbane, ha l’effetto di ridurre la componente antropica dal 50% al 70%”, sottolinea Scafetta.

Infine, l’esperto affronta il tema delle emissioni di CO₂: mentre l’Europa le sta riducendo, con l’obiettivo di raggiungere zero emissioni entro il 2050, alcuni Paesi, come Cina, India e Indonesia, le stanno aumentando. Non solo. In tutto i Paesi orientali, sono in costruzione o in progetto centinaia di nuove centrali a carbone, che emettono anidride carbonica, cosa che nel mondo occidentale non avviene. “Che senso ha decarbonizzare l’Europa e gli Stati Uniti, con la scusa di salvare il pianeta, se poi in questa parte del mondo si stanno costruendo centinaia di centrali a carbone?”, si chiede Scafetta.

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