Quasi il 74% (73,8%) degli oncologi ritiene che vi sia ancora un bisogno assistenziale insoddisfatto per evitare le recidive nelle donne con tumore del seno HER2 positivo. E, secondo gli specialisti, la percentuale di pazienti per cui servono ulteriori opzioni terapeutiche arriva fino al 30%. La “fotografia” è scattata dal progetto “Residual risk of relapse”, coordinato dalla Fondazione Periplo, che ha promosso un sondaggio fra gli oncologi per analizzare lo stato dell’arte sulle armi disponibili prima e dopo la chirurgia del tumore del seno (rispettivamente terapia neoadiuvante e adiuvante). “Ogni anno, in Italia, quasi 55mila donne ricevono la diagnosi di tumore della mammella, la neoplasia in assoluto più frequente in tutta la popolazione – spiega Pierfranco Conte, Presidente Fondazione Periplo e Direttore Divisione di Oncologia Medica 2, Istituto Oncologico Veneto (IOV) di Padova -. La maggior parte, circa 46.200 (84% del totale), presenta la malattia in stadio iniziale (I-II-III) e 7000 (il 15% di queste ultime) sono caratterizzate da iperespressione della proteina HER2 (HER2+). È la popolazione in cui il clinico deve valutare l’opportunità della terapia adiuvante, cioè successiva alla chirurgia, per un anno con un trattamento mirato anti HER2, che permette di migliorare notevolmente la sopravvivenza. Nonostante i progressi ottenuti, gli studi evidenziano che una percentuale di pazienti compresa fra il 15 e il 24% continua a recidivare con un picco di incidenza di recidive a 18-24 mesi dall’intervento chirurgico, anche se alcune pazienti presentano recidive tardive anche a 10 anni di follow-up. Da qui il bisogno clinico ancora insoddisfatto emerso dal sondaggio e la necessità di ulteriori opzioni terapeutiche per potenziare il trattamento adiuvante”.
“Siamo di fronte a una popolazione che presenta ancora una necessità di ridurre il rischio di ricadute, di progressione di malattia e di morte – afferma il Prof. Conte -. È necessario potenziare e incrementare le opzioni di cura in adiuvante per prevenire le recidive. L’introduzione della terapia mirata anti HER2 ha cambiato la storia naturale della malattia, e, in associazione alla chemioterapia, consente di ridurre il rischio di recidiva sino all’80%, trasformando il tumore della mammella HER2 positivo in una neoplasia ad alto tasso di guaribilità”.
“Il nostro obiettivo, però, è quello di individuare e curare anche quel 20% di donne che ancora presenta recidiva di malattie – spiega il Prof. Conte –. La terapia medica adiuvante (dopo la chirurgia) o neoadiuvante (prima della chirurgia) è l’unica strategia per ridurre il rischio di recidiva a lungo termine. L’evoluzione della malattia da stadio iniziale a ricorrente o metastatico ha un impatto negativo non solo sulla prognosi ma anche sulla qualità della vita della paziente. Inoltre, la diagnosi di recidiva determina un impatto economico sul sistema sanitario. Aumentare il numero di opzioni terapeutiche in adiuvante significa contenere i costi in termini di farmaci, visite e ospedalizzazioni”.
Per quasi il 40% degli oncologi la percentuale di pazienti a cui servono ulteriori cure si attesta fra l’11 e il 20% e per il 30% questo tasso è compreso fra il 21 e il 30%. “Il trattamento dopo la chirurgia nel tumore della mammella è prescritto a donne apparentemente e, in alcuni casi, del tutto libere da malattia – conclude il Prof. Conte –. Ecco perché è necessario porre molta attenzione al rapporto rischio-beneficio delle cure dopo la chirurgia. Inoltre, i clinici hanno necessità di nuovi strumenti per individuare le pazienti in cui sono maggiori i rischi di recidiva e che quindi, hanno reale necessità di ulteriori opzioni terapeutiche. Sono i casi in cui deve essere prescritta la terapia adiuvante, evitando invece inutili tossicità alle altre donne in cui la malattia non si ripresenterà. Per individuare queste pazienti vengono utilizzati strumenti ‘classici’ come la dimensione della neoplasia, lo stato linfonodale, l’espressione o meno dei recettori ormonali, il ritmo proliferativo delle cellule tumorali. Sono in corso studi proprio per sviluppare test diagnostici predittivi sempre più affidabili. Una di queste ricerche è condotta dall’Istituto Oncologico Veneto (IOV) di Padova insieme all’Università di Barcellona”.