Lo stato drammatico degli ospedali italiani ben prima della pandemia e le vere cause del disastro Covid: la denuncia di un’infermiera

Prevedere le complicanze cliniche a cui un paziente poteva andare incontro, ma non avere la possibilità di fare tutto il necessario per mancanza di tempo: gli ospedali italiani e l'emergenza iniziata anni prima della pandemia
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La pandemia da Covid-19 ha causato, ad oggi, in Italia ben 131.301 morti. Una cifra importante, se si pensa che dovremmo essere un paese sviluppato e con i giusti mezzi per far fronte ad un virus che, sebbene molto insidioso e contagioso, causa sintomi lievi o moderati alla maggior parte di chi ne viene contagiato, con  una guarigione che perlopiù avviene senza avere bisogno di cure particolari.

Dunque cosa è andato storto? Una prima risposta, forse sarebbe da ricercare nel sistema ospedaliero italiano.

In merito la nostra redazione ha ricevuto la lettera di un’infermiera che ha deciso di ‘denunciare’ la situazione degli ospedali, che non sono in emergenza solo da due anni a questa parte, ma che versano in uno stato di palese inefficienza già da tempo.

Di seguito la lettera firmata:

Ho lavorato per circa 10 anni nel principale ospedale della mia città a cui, all’inizio di questa primavera, ho rassegnato le dimissioni. Le condizioni di lavoro, il modo in cui tutto è organizzato e la generale penuria di risorse, mi hanno portato a questa scelta davvero enormemente sofferta, ma altrettanto inevitabile. Da professionista infermiera quale sono, vorrei cercare di stimolare chi mi legge ad una riflessione, che credo essere urgente, e voglio contribuire a dare voce ad una realtà tanto vera quanto purtroppo ignorata dai più.

In questi anni ho visto sempre più decadere in tutti i sensi la mia realtà lavorativa, schiacciata dal depauperamento delle risorse e dall’aumento sempre più imponente e praticamente ingestibile del carico di lavoro. Mi sono trovata nella situazione in cui, in virtù della mia esperienza e delle mie competenze, ero in grado di prevedere estremamente bene le complicanze cliniche a cui un paziente poteva andare incontro, ma non avevo la possibilità materiale di fare tutto quello che sapevo essere necessario ed efficace per prevenirle. Non ne avevo letteralmente il modo, per mancanza di tempo a fronte di una mole di richieste di assistenza assolutamente esagerata rispetto alle mie umane capacità di risposta. Spessissimo mi trascinavo a casa, senza aver mangiato e bevuto, né tanto meno essere andata al bagno durante il turno, perché non avevo materialmente il tempo di farlo (tralascio volutamente la disquisizione sul salto di riposi, i rientri in servizio e l’impossibilità di godere delle ferie per coprire le croniche carenze di personale; dico solo che ho dovuto smaltire 40 giorni di ferie arretrate prima della effettiva risoluzione del mio contratto lavorativo). 

Sfido tutti i colleghi infermieri dei reparti di degenza a smentirmi circa la veridicità di questa situazione. Ho scelto consapevolmente questa professione, amandola infinitamente, ma questo non è un modo dignitoso di lavorare. È palese come il problema sia di altra natura e soprattutto che persista, nonostante il massimo impegno da parte del personale. Non si tratta solo di non riuscire più a sostenere fisicamente e psicologicamente questa condizione lavorativa (si vedano anche i sentimenti di ansia, frustrazione e impotenza con cui quotidianamente dovevo fare i conti), ma anche delle inevitabili ripercussioni sulla sicurezza nelle cure erogate. La robustissima letteratura scientifica attualmente presente dimostra come il rapporto infermieri/pazienti sia direttamente correlato al tasso di mortalità degli stessi; questo significa che ogni giorno viene minata la vita delle persone assistite. Quando il rapporto tra infermieri e pazienti ricoverati è superiore a 1:6, la probabilità di morte aumenta del 7% per ogni paziente in più da assistere.

Nella mia storia lavorativa ho avuto in carico mediamente 12 pazienti, a volte anche 13. A voi i conti. Questa era la situazione in essere ben prima dell’avvento del virus di cui tanto oggi si parla e mi sembra abbastanza facile comprendere come non si sia riusciti a far fronte al disastro. Se sul momento abbiamo fatto quello che potevamo con ciò che avevamo a disposizione, a distanza di un anno e mezzo occorre constatare che nulla è cambiato, anzi. Non sono stati fatti investimenti per aumentare né i posti letto (anch’essi pian piano diminuiti negli anni) né tanto meno il personale, cosa del resto impossibile dato che sono rarissimi gli infermieri attualmente non occupati e che i numeri di accesso ai corsi di Laurea in Infermieristica negli anni sono stati costantemente inferiori rispetto al reale fabbisogno di questi professionisti (con le conseguenze di cui sopra). Le intenzioni politiche attuali non  sembrano affatto voler andare nella direzione giusta per risolvere davvero il problema: l’ultimo esempio eclatante è il DM 1068/2021 che decreta il numero di accesso al corso di Laurea in Infermieristica, ancora decisamente troppo basso: -26% dei posti  disponibili rispetto al fabbisogno definito e condiviso a livello nazionale, fra le Istituzioni dello Stato e gli organi di rappresentanza. In buona sostanza, ad oggi, in Italia mancano più di 60mila infermieri per garantire qualità e sicurezza delle cure, per avere cioè i livelli minimi di staffing che gli studi nazionali e internazionali indicano come sufficienti per garantire salute ai cittadini.

L’ospedale della mia città ha recentemente indetto un grande concorso per assumere ben 60 professionisti, di cui a questo punto è facile comprendere come solo un’esigua minoranza sia inoccupata. I restanti sono già impiegati altrove sul territorio, tra strutture private e cooperative da cui tendenzialmente vogliono allontanarsi per l’inadeguato trattamento contrattuale ed economico. Il risultato sarà un ulteriore depauperamento delle risorse sparse sul territorio che, alla luce della situazione contingente, sarà ancora più in difficoltà a rispondere alle problematiche di salute in essere. La coperta è sempre corta e non smetterò mai di ripetere che, scioccamente, si sta combattendo la battaglia sbagliata. 

A fronte di quanto esposto finora mi sento di fare un’affermazione tanto forte quanto estremamente logica: in queste condizioni di base, ulteriormente peggiorate durante lo scorso anno (si veda lo stato di burn out in cui versano molti professionisti), il fatto che un operatore sia vaccinato o meno è davvero l’ultimo problema per le persone che necessitano assistenza, così pesantemente minata nelle sue fondamenta. Da questa primavera infatti si è aggiunto un ulteriore elemento: il DL 44/2021 che obbliga il personale sanitario ad effettuare la vaccinazione. Quei pochi operatori che hanno deciso liberamente di non vaccinarsi sono stati sospesi anche dall’albo professionale (quindi non possono esercitare da nessuna parte) o sono in attesa di esserlo, con la conseguente ulteriore mancanza di personale che va ad aggravare una situazione già tragica.

Non ho intenzione di perdermi in disquisizioni ideologiche, dico un’unica cosa in merito: per mandato deontologico noi infermieri siamo chiamati a tutelare il principio di autodeterminazione della persona assistita e per primi ne veniamo privati! La trovo una contraddizione assoluta. In ogni caso il mio pensiero è molto semplice: se c’è stato un caotico iniziale momento in cui i DPI erano carenti, oggi non è certo più così. Esistono dei protocolli e delle procedure che ne declinano precisamente l’utilizzo e valgono per tutti, indipendentemente dal fatto che il personale operante sia immune al virus. I dati recenti dimostrano come la vaccinazione non sia dirimente in tal senso (oltre che essere ormai ‘obsoleta’ in quanto tarata su un virus praticamente non più esistente). Non è detto che renda immuni e i sempre più numerosi casi di operatori sanitari (e non solo), vaccinati e positivi, lo dimostra in modo eclatante. La vaccinazione in alcuni casi può essere un aiuto certo, ma è scellerato considerarla l’unica soluzione possibile per risolvere la situazione epidemiologica, come si ripete da un anno a questa parte, ma soprattutto è una scelta senza senso a fronte dei problemi che ho esposto e che dovrebbero essere il vero focus dell’attenzione di tutti, gestori istituzionali e cittadini (dato che la pelle è la loro). Io ho deciso, dopo un anno di profonda e sofferta riflessione, di lasciare il mio posto di lavoro con l’idea di creare una realtà migliore per me e per le persone che assisto, ma sono stata sospesa per non aver effettuato la vaccinazione e ad oggi non ho modo di esercitare la professione, nonostante io sia un’ottima infermiera che vorrebbe solo fare la propria parte, come ho sempre fatto anche durante l’emergenza ospedaliera dello scorso anno. Il giorno dopo la mia  sospensione ho ricevuto 4 telefonate in meno di 6 ore, in cui mi si offrivano contratti lavorativi che non ho potuto accettare. L’ultima era da parte di una responsabile di una struttura del mio territorio che si è messa a piangere mentre parlava con me, disperata all’idea di dover chiudere posti letto a fronte dell’impossibilità materiale di assistere i pazienti per mancanza di personale. 

Concludo dicendo che ‘quando il dito indica la luna, lo stolto guarda il dito’ che oggi è volutamente ed erroneamente puntato contro chi ha scelto liberamente di non effettuare la vaccinazione, demonizzandolo contro ogni principio scientifico, quando il problema è ben più grande e grave e non sarà certo vaccinando forzatamente quei pochi refrattari che si risolverà, né tanto meno sospendendoli direi. A fronte dell’attuale situazione a dir poco tragica, penso sia davvero da stolti accanirsi contro la ritrosia di pochi, qualunque ne sia la ragione, dato che sono professionisti seri e qualificati (definiti addirittura eroi fino a poco tempo fa) che sarebbero solo felici di continuare a dare il loro contributo per migliorare la realtà sanitaria nell’interesse di tutti”.

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