“Un crescente corpus di letteratura supporta la conclusione che l’immunità naturale non solo conferisce una protezione robusta, duratura e di alto livello contro il Covid-19, ma che è anche meglio dell’immunità indotta da vaccino. Tuttavia, la maggior parte dei giornali scientifici, degli organi di stampa, di autoproclamati esperti della salute e dei messaggi di politica pubblica continuano a metterlo in dubbio. Questo dubbio ha conseguenze nel mondo reale, soprattutto per i Paesi dalle risorse limitate”, scrivono i medici Manish Joshi, Thaddesu Bartter e Anita Joshi (University of Arkansas for Medical Sciences) in un articolo pubblicato sul British Journal of Medicine, in cui riesaminano i dati disponibili.
“L’infezione genera immunità. Lo studio SIREN, pubblicato su The Lancet, ha affrontato la relazione tra sieropositività nelle persone con una precedente infezione da Covid-19 e il successivo rischio di sindrome respiratoria acuta grave a causa di un’infezione da SARS-CoV-2 nei 7-12 mesi successivi. L’infezione precedente riduceva il rischio di reinfezione sintomatica del 93%. Un grande studio di coorte, pubblicato su JAMA Internal Medicine ha analizzato 3,2 milioni di pazienti statunitensi e ha dimostrato che il rischio di infezione era notevolmente più basso (0,3%) nei pazienti sieropositivi rispetto a quelli sieronegativi (3%). Forse ancora più importante per la questione della durata dell’immunità è uno studio recente che ha dimostrato la presenza di cellule immunitarie di memoria di lunga durata in coloro che erano guariti dal Covid-19. Questo implica una capacità prolungata (forse per anni) di rispondere ad una nuova infezione con nuovi anticorpi”, scrivono i 3 esperti.
“Al contrario di questi dati collettivi che dimostrano una protezione adeguata e duratura in coloro che sono guariti dal Covid-19, la durata dell’immunità indotta da vaccino non è completamente conosciuta, ma le infezioni breakthrough”, ossia quelle che si verificano nelle persone vaccinate, “in Israele, Islanda e Stati Uniti suggeriscono qualche mese. Prima che i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie decidessero di smettere di raccogliere dati su tutte le infezioni breakthrough alla fine di aprile 2021, segnalavano oltre 10.000 infezioni breakthrough (2 settimane dopo aver completato la vaccinazione) negli Stati Uniti, con una mortalità di circa il 2%”, si legge nello studio, che cita poi le campagne per somministrare una terza dose di vaccini anti-Covid in Israele e USA, che dimostrano “l’insuccesso dei vaccini entro 6 mesi”.
“Come dovremmo utilizzare i dati collettivi per dare priorità alle vaccinazioni? Questi nuovi dati sostengono concetti semplici e logici. L’obiettivo della vaccinazione è generare cellule di memoria in grado di riconoscere il SARS-CoV-2 e generare rapidamente anticorpi neutralizzanti che prevengano o mitighino l’infezione e la trasmissione. Coloro che sono guariti dal Covid-19 devono aver costruito, quasi per definizione, un’efficace risposta immunitaria; non sorprende che la letteratura in evoluzione dimostri che l’infezione precedente riduce la vulnerabilità. A nostro avviso, i dati suggeriscono che le persone che hanno avuto un’infezione da SARS-CoV-2 confermata possono non aver bisogno del vaccino. Non dovremmo discutere delle implicazioni dell’infezione precedente; dovremmo discutere di come confermare l’infezione precedente”, concludono gli esperti.