Giuseppe Mercalli e i terremoti nei libri di scuola

Con l’avvento dei primi sismometri nella seconda metà dell’Ottocento ci si avviava verso nuove frontiere per lo studio dei terremoti
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L’inizio del XX secolo ha rappresentato un periodo particolarmente interessante e innovativo per la sismologia italiana e mondiale. L’avvento dei primi sismometri nella seconda metà dell’Ottocento iniziava ad aprire nuove frontiere per lo studio dei terremoti. Numerosi forti eventi sismici avvenuti in varie parti del mondo tra la fine del XIX secolo e i primi dieci-quindici anni del XX avevano permesso importanti osservazioni e scoperte. Tra queste spicca la cosiddetta “teoria del rimbalzo elastico” (elastic rebound) proposta da Harry Fielding Reid dopo lo studio del terremoto di San Francisco del 1906. Questa teoria, secondo cui i terremoti avvengono per il rilascio repentino di energia accumulata sulle faglie per un tempo molto lungo, è tuttora considerata valida nei suoi principi generali, ma in quegli anni non aveva preso piede immediatamente in tutto il mondo, come spiega Alessandro Amato in un articolo pubblicato su blogingvterremoti. Va anche ricordato che, dopo il terremoto del 1908 nello Stretto di Messina, il sismologo giapponese Fusakichi Omori aveva ipotizzato che la causa del sisma fosse “la formazione o l’estensione improvvisa di una frattura nella crosta terrestre in direzione ESE o WNW, il cui piano è quasi verticale o leggermente inclinato verso NNE”, dimostrando inoltre, dall’esame dei sismogrammi, che una causa vulcanica per quell’evento sismico fosse da escludere.

La faglia di San Andreas evidenziata dallo spostamento laterale dello steccato verificatosi a seguito del terremoto del 1906

Giuseppe Mercalli, studioso e insegnante

In Italia, tra gli studiosi di terremoti più conosciuti e più esperti di quel periodo c’era Giuseppe Mercalli (1850-1914), che per quasi tutta la sua vita professionale ha insegnato le Scienze Naturali nelle scuole, scrivendo dei testi per gli studenti delle scuole secondarie liceali e tecniche. Questi testi sono stati scritti e pubblicati in numerose edizioni successive, dal 1884 a dopo la morte del Mercalli. A cavallo, quindi, delle importanti scoperte di quel periodo.

Il confronto tra le edizioni pubblicate prima e dopo la teoria di Reid potrebbe forse far capire come quelle idee venissero recepite dalla “scienza ufficiale” italiana ed eventualmente insegnate nelle scuole superiori.

Giuseppe Mercalli sull’orlo del cratere del Vesuvio

I testi di scienze di quel periodo storico erano piuttosto generali, trattando quasi tutti i campi della geologia. Il titolo della prima edizione del testo è infatti “Elementi di Mineralogia e Geologia”. Disponendo della prima edizione del 1884 (ristampata dall’INGV nel 2014, in occasione del centenario della morte di Mercalli), ho cercato quindi di procurarmi un’edizione successiva. Fortunatamente, poco tempo fa ho trovato online una copia, piuttosto malconcia, della 13a edizione, riveduta ed aumentata, del 1920 intitolata “Elementi di Mineralogia, Geografia fisica e Geologia”. Come si vede, già il titolo era aumentato, con l’inserimento della Geografia fisica tra la Mineralogia e la Geologia.

Copertine delle due edizioni a confronto (a sinistra quella del 1884 e a destra quella del 1920)

La classificazione dei terremoti secondo Mercalli

Nel capitolo sui terremoti, in particolare la parte sulla loro classificazione e le loro cause, possiamo vedere se nelle due edizioni si riscontrino differenze tra il prima e il dopo-Reid.

Nella 1a edizione del 1884 Mercalli riportava:

154. Classificazione dei terremoti e loro cause – I terremoti si possono classificare nel seguente modo:

155. Terremoti vulcanici propriamente detti.

156. Terremoti vulcanici perimetrici.

157. Terremoti non vulcanici, suddivisi in terremoti di crollamento e terremoti di dislocazione.

I primi sono naturalmente quelli che avvengono nelle aree vulcaniche, i secondi erano per Mercalli quelli delle aree non vulcaniche ma ad esse adiacenti che così erano definiti:

I terremoti perimetrici sono quelli che hanno il loro centro non al piede dei vulcani attivi, ma in una regione non molto lontana da essi. Tali sono, per esempio, i numerosi terremoti delle due Calabrie. […] a me pare più probabile l’esistenza di focolari sismici perimetrici, indipendenti dai focolari vulcanici; poiché è molto verosimile che le medesime condizioni sotterranee che determinano la formazione delle lave nei focolari vulcanici del Vesuvio e dell’Etna, abbiano a cagionare sotto alle Calabrie la formazione di magmi lavici, i quali non trovando uno sfogo, cagionano numerosi e violenti terremoti.

Il Mercalli riteneva quindi (oggi possiamo dire erroneamente) che i terremoti della Calabria fossero causati dal movimento di “magmi lavici”.

Una delle figure del libro di Mercalli nella sezione dedicata ai terremoti. Notare la scala dei crepacci rispetto all’uomo raffigurato a destra nel disegno

Ancora nell’edizione del 1884, nella categoria dei terremoti non vulcanici venivano distinti quelli di crollamento e quelli di dislocazione. Tralasciando i primi, vediamo quindi che già nel 1884, ben prima quindi del terremoto di San Francisco e della teoria di Reid, Mercalli riteneva che alcuni terremoti fossero dovuti alla dislocazione di strati rocciosi. Essi erano definiti come

terremoti che hanno il loro centro lungi dai vulcani attivi, e che spesso sono molto estesi e violentissimi. Tale fu, per esempio, il grande terremoto di Lisbona, del primo novembre 1755. Si crede che questi terremoti possano essere un effetto della formazione di grandi fratture sotterranee e delle dislocazioni delle rocce, che devono seguire come necessaria conseguenza delle lente oscillazioni della crosta della Terra e per la formazione delle montagne: perciò alcuni li chiamano terremoti di dislocazione”.

È piuttosto sorprendente che Mercalli nel 1884 già parlasse “della formazione di grandi fratture sotterranee e delle dislocazioni delle rocce”, e che questi fossero imputati a “lente oscillazioni della crosta della Terra e per la formazione delle montagne”. Un concetto innovativo per quel momento storico. Naturalmente, né Mercalli né gli altri studiosi del periodo (Alfani, De Rossi, Baratta) avevano dati sperimentali per misurare queste “lente oscillazioni” e le “dislocazioni delle rocce”, cosa che fu invece possibile per Reid una ventina di anni dopo. Va rilevato che Mercalli scrive “perciò alcuni li chiamano terremoti di dislocazione”, come se descrivesse una teoria proposta da qualcuno ma forse senza crederci troppo.

Un’altra delle figure del libro di Mercalli nella sezione dedicata ai terremoti, in cui viene mostrata quella che oggi chiameremmo faglia

Vediamo ora cosa cambia nell’edizione del 1920. La classificazione dei terremoti è quasi la stessa, ma nella terza categoria i terremoti di dislocazione vengono definiti “tectonici”.

Qualche differenza, non sostanziale, emerge nella descrizione dei terremoti perimetrici. Mercalli sostituisce lo Stromboli al Vesuvio, parla di “magma intrusivi” (più corretto) invece che “magmi lavici”, e infine propone di chiamarli “intervulcanici”.

Terremoti di dislocazione

Differenze più interessanti emergono confrontando i due testi relativi ai terremoti di dislocazione.

Anzitutto, Mercalli aggiunge all’esempio del sisma di Lisbona del 1755 (unico presente nella prima edizione) quello della Liguria del 1887 (non ancora avvenuto quando questa fu pubblicata). Poi sostituisce il “possano essere” (…un effetto della formazione di grandi fratture…) con “siano” (idem), segno che questa ipotesi si andava consolidando tra gli studiosi dell’epoca e anche lui iniziava a crederci.

Inoltre, definendo questi eventi sismici, dice che essi “prendono il nome di terremoti tectonici o terremoti di assettamento orogenico”.

Infine, aggiunge alla descrizione il paragrafo seguente, non presente nella prima edizione, evidentemente frutto dell’esperienza di quel ventennio in cui erano avvenuti dei grandi terremoti in Italia e in altre parti del mondo (il già citato evento del 1887 in Liguria, quello del 1905 in Calabria, quello del 1906 a San Francisco e molti altri):

Sono i terremoti che producono vistosi mutamenti oro-idrografici, con salti e crepacci nel suolo e deviazioni di acque: hanno una zona di scotimento microsismica molto vasta, perciò la loro registrazione avviene su quasi tutta la terra; e la loro area macrosismica si estende ad oltre i 20, 30, 100 km di diametro e perciò sono detti anche regionali: hanno l’area epicentrale allungata, alle volte con più epicentri allineati, localizzati in regioni caratteristiche e perciò dette sismiche.

Oggi giorno i terremoti più estesi e più intensi si inclina ad ascriverli a quest’ultima categoria; ed anche quelli detti perimetrici si vorrebbero mettere in relazione con linee di fratture, con dislocazioni più o meno estese, più o meno profonde della crosta terrestre.

Come si vede, c’è il germe del ripensamento sui terremoti perimetrici, anche se non c’è una completa ammissione (“si vorrebbero mettere in relazione con linee di fratture…”). Interessante anche la considerazione che i grandi terremoti venissero registrati dai sismometri in tutta la Terra, cosa nient’affatto scontata agli inizi del Novecento.

Un altro elemento interessante emerge da un’altra parte del testo, quella che Mercalli intitola “Definizione. Centro dei terremoti. Vibrazioni sismiche. Profondità dell’epicentro”. Qui, nel descrivere il c.d. “centro sismico” o ipocentro del terremoto (“quella parte interna della Terra dalla quale parte l’urto primitivo, che propagandosi fino alla superficie del suolo, cagiona il terremoto”), Mercalli così scrive: “Spesso il centro è allungato in una posizione quasi lineare; è il caso in cui il disturbo meccanico, che cagiona il terremoto, agisce contemporaneamente lungo i punti di una frattura sotterranea”. Sembra che qui egli anticipasse il concetto di faglia, descritta come una frattura lineare o planare. Forse anche l’esperienza del terremoto di Messina e Reggio del 1908 e gli scritti di Omori al riguardo potrebbero averlo fatto ricredere, almeno in parte.

Interessante, infine, il paragrafo che Mercalli nell’edizione successiva dedica ai terremoti italiani e alla loro classificazione:

122 bis. Natura dei terremoti italiani. Secondo il prof. G. B. Alfani, i terremoti delle Alpi Carniche, del Friuli e del Bellunese sono terremoti di dislocazione per fratture nei massicci di quei monti; similmente quelli delle Alpi Occidentali, fors’anche quelli della Riviera Ligure.

I pochi terremoti della Valle del Po sono dovuti all’assettamento dei terreni alluvionali.

Le scosse delle Romagne e dell’Umbria sono totalmente da attribuirsi ai movimenti della curva appenninica ivi esistente e a sprofondamenti dell’Adriatico.

Le scosse del Lazio sono attribuite a franamenti delle cavità scavate dalle acque del sottosuolo nei monti calcarei più che ad ultime manifestazioni del vulcanismo di questa regione.

I terremoti endocentrici del Napoletano, come dell’Etna e Val di Noto, debbono la loro origine all’attività vulcanica di queste zone. I terremoti di Calabria forse sono da attribuire a causa criptovulcanica; gli strati profondi terrestri si piegano sotto enorme pressione per formare le montagne, la pressione a sua volta genera un’altissima temperatura

In conclusione, si può dire che nei trent’anni a cavallo del 1900 la Sismologia italiana ha fatto certamente grandi passi avanti. Al tempo stesso, vediamo che quanto di nuovo viene scoperto e pubblicato a livello internazionale non subito si traduce in una conoscenza consolidata, al punto da essere inserito nei testi scolastici. Tuttavia, dal confronto tra i testi di Mercalli del 1884 e del 1920 emergono delle interessanti differenze nelle spiegazioni dei meccanismi di generazione dei terremoti, indicative di un lento processo di “digestione” delle nuove teorie. Le ragioni di questa lentezza potrebbero forse derivare dalla “resistenza” di Mercalli a convincersi delle nuove teorie, ma anche di un naturale ritardo dei programmi scolastici nel recepire le teorie più innovative.

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