Nel sito archeologico di Salorno (BZ) è stata ritrovata un’area di cremazione che rappresenta un unicum per quantità di resti bruciati e che potrebbe anche rivelare una nuova modalità funeraria, non comune nell’età del Bronzo.
La ricerca, pubblicata su PLOS ONE è stata realizzata da un team del Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali dell’Università degli Studi di Milano, in collaborazione con l’Ufficio Beni Archeologici di Bolzano.
Il sito oggetto di ricerca è situato sulla sponda sinistra dell’Adige all’altezza della Chiusa di Salorno, è datato alla fine dell’Età del Bronzo (ca. 1150-950 a.C.) e ha restituito una quantità senza precedenti di resti umani cremati (circa 63 kg), insieme a frammenti di ossa animali bruciate, cocci di ceramica e altri corredi funerari in oro, bronzo, osso, palco di cervo e pasta di vetro. Gli scavi, effettuati negli anni ’80 del secolo scorso, hanno portato alla luce una delle più rare e significative documentazioni di resti umani cremati conservati in un’antica piattaforma di cremazione (ustrinum), che hanno potuto essere analizzati solamente di recente dal team di ricerca. Nonostante l’elevato grado di frammentazione dei resti cremati e la mancanza di informazioni relative ai singoli individui, l’analisi bioarcheologica ha potuto beneficiare di una dettagliata documentazione spaziale e stratigrafica nel tentativo di proporre alcune interpretazioni del rituale e della pratica della raccolta e deposizione delle ossa cremate in una prospettiva geografica e storica più ampia.
L’assenza del ritrovamento di una necropoli contemporanea associata all’ustrinum non consente di escludere che Salorno sia quanto rimane di una pira funeraria utilizzata per molti corpi nel corso dei circa duecento anni stabiliti dalla tipologia dei corredi e della ceramica. Al tempo stesso, non si può escludere l’ipotesi che Salorno sia al contrario un luogo sia di cremazione che di sepoltura dei corpi. Il sito funerario potrebbe essere stato utilizzato da una piccola comunità per otto generazioni, forse un’élite locale o un gruppo sociale più ampio composto da poche famiglie facenti parte di uno o più villaggi.
“Solitamente, infatti, la combustione del defunto e la raccolta dei resti avvenivano in un luogo differente da quello di sepoltura; a Salorno, invece, il luogo di combustione combacia con quello di seppellimento, il che indicherebbe una deviazione dalla norma funeraria”, spiega Umberto Tecchiati, docente di Preistoria ed Ecologia preistorica della Statale di Milano.
Il ritrovamento è un unicum nel suo genere e, per la quantità di ossa umane rinvenute insieme alla moltitudine di altri manufatti archeologici, ha da subito destato un interesse particolare, perché ha offerto la possibilità di ricostruire nel dettaglio un rituale funerario protostorico non documentato prima. La maggior parte della documentazione archeologica funeraria di questo periodo, infatti, attiene a urne cinerarie o resti umani cremati che, in quanto elementi selezionati per la sepoltura, impediscono la comprensione da parte degli scienziati di altri aspetti del rituale funerario (preparazione, contesto, eventuali libagioni da parte dei vivi, etc.) che il sito di Salorno può finalmente provare a far immaginare.
“Con una quantità di resti umani che supera quella di qualsiasi altro contesto contemporaneo o successivo interpretato come ustrinum, e con riferimento alla collocazione di confine fra la regione più propriamente alpina e quella padana, ciò che è stato individuato a Salorno potrebbe essere il prodotto di una complessa serie di rituali in cui i resti cremati del defunto non ricevevano una sepoltura individuale, ma venivano lasciati in situ, in un luogo collettivo di combustione primaria, definendo un’area di cerimonie funebri ripetute con offerte e libagioni attraverso alcune generazioni”, conclude Tecchiati.
Si tratterebbe, dunque, di una nuova categoria tipologica e funzionale di un sito funerario che si aggiunge alla variabilità delle usanze mortuarie della fine dell’Età del Bronzo nell’Italia settentrionale, in un momento in cui le tendenze sociali “globalizzanti” potrebbero aver spinto verso la definizione di specifiche identità culturali geograficamente circoscritte.