E’ giunta al terzo mese di gravidanza e i due gemellini che porta in grembo la causano forti nausee, come accade a tante future mamme. Avere un bambino dopo il tumore al seno non è semplice, ma Giovanna non ha mai mollato. Per la maestra bolognese di 41 anni la tanto attesa notizia finalmente è arrivata. “Con la stessa forza con la quale ho lottato contro il tumore – racconta all’AGI Giovanna – ho lottato per avere un bambino, perchè non volevo arrendermi a questa cosa. Non mi sarei mai arresa, mai. Non avrei mai potuto accettare che il cancro mi avesse portato via la cosa che volevo, e questo mi dava la forza per andare avanti“. O
E’ la prima volta al mondo che si documenta la fertilitàdi ovociti crio-conservati e vitrificati così a lungo. “I percorsi non sono facili, e finchè non ci si passa non lo si capisce – spiega Giovanna, ricordando tutte le tappe che hanno portato a questa fecondazione – Ho voluto divulgare questa cosa per dare anche coraggio e forza a tutte le ragazze che le affrontano: bisogna avere tanto coraggio e tanta perseveranza, soprattutto“.
Una storia a lieto fine
“Una storia con un lieto fine la mia, speriamo.- racconta Giovanna all’AGI – ho cominciato tanti anni fa il percorso, a 33 anni mi sono ammalata di un cancro al seno abbastanza aggressivo. Subito il professore che mi aveva in cura a Bologna mi aveva proposto di crioconservare i miei ovociti. Ho sempre pensato di avere un bambino, avevo 33 anni, avevo appena iniziato a lavorare, io e il mio compagno, era proprio il momento, sì…. Però poi ho avuto questa diagnosi, ho dovuto affrontare delle cure abbastanza importanti, e quindi tutto si è bloccato lì. Ho iniziato con la crioconservazione: finite le cure, presa consapevolezza di poter affrontare la gravidanza, avevo 36-37 anni, perché dopo un tumore non si può rimanere incinta dopo un anno, avendo fatto chemioterapia, bisogna aspettare un po’ di tempo. Ho pensato di scongelare questi miei ovociti, ma purtroppo non hanno resistito allo scongelamento, non è andata bene. E quindi mi sono ritrovata a dover fare tutto daccapo, ma con una riserva ovarica molto ridotta, dopo le cure aggressive fatte“.
“Però – racconta ancora Giovanna, sostenuta dal marito – abbiamo tentato tante volte: ho fatto quasi quasi sette cicli di procreazione assistita. E sono cure pesanti: quando si prelevano i propri ovociti, c’è il ricovero in ospedale, ci sono tante cure, tanti ormoni, non è un percorso facile. Ho provato quasi quattro anni a vedere se ci riuscivo: l’ultimo tentativo l’avevo fatto a giugno, e non era andato bene. Quindi avevo deciso di non volere più perdere tempo: di smettere di insistere con i miei e sinceramente, con molta tranquillità, avevo pensato all’ovodonazione. Anche le dottoresse che mi hanno sempre seguito mi hanno detto “basta Giovanna, fermiamoci”. E poi ancora i dubbi: “Il fatto di aver fatto un’ovodonazione, forse non tutti la comprendono – racconta ancora Giovanna – perché in Italia non è una pratica ancora tanto accettata dalle donne“.
Poi, a settembre, l’inserimento di due ovociti, per aumentare le probabilità di proseguire la gravidanza. Aumentava così anche la possibilità che fossero gemelli. “All’epoca a me non importava, per me avere dei gemelli sarebbe stata una benedizione, non un dramma. Non ne potevo più, ho seguito i consigli dei medici e ne abbiamo inseriti due. Il caso ha voluto che tutti e due si siano impiantati”. “Alla fine – racconta ancora Giovanna – c’è stata la ricompensa, una ricompensa al fatto di non arrendersi mai: questo per me è importante, fare quello che si vuole, non farsi spaventare dall’ovodonazione perché comunque è una possibilità. Per chi è rimasta infertile dopo il cancro e per chi lo è senza averlo avuto, la possibilità di avere un bambino. Se la scienza ci può aiutare, perché no?“.
“Non arrendersi mai”
“Voglio lanciare messaggio di speranza e di tenacia alle donne: non arrendetevi mai, anche se un oncologo vi dice che non diventerete mai madri“. Ha detto Giovanna all’ANSA. Un primato mondiale, secondo l’Irccs Policlinico Sant’Orsola di Bologna che ha seguito la donna. “All’epoca dell’operazione avevo 33 anni“, racconta Giovanna. “Il medico mi disse che le cure avrebbero potuto interferire con la mia fertilità“. Dopo l’intervento e i cicli di chemioterapia, “per sei volte ho tentato con le procedure di procreazione medicalmente assistita, ma non funzionavano perché il mio corpo era danneggiato dalle terapie“. “In Italia – prosegue – la donazione di ovuli è ancora un tabù, per molte donne significa non essere mamma al cento per cento. Ma questo non è vero”. “L’ovodonazione invece è una grande opportunità – conclude Giovanna, che è maestra in una scuola dell’infanzia di Bologna – perché dà la possibilità di diventare mamma a donne che subiscono cure pesanti”.