In Italia, “il 5% degli adulti ha una diagnosi di diabete. La prevalenza di diabetici cresce con l’età (è il 2% tra le persone con meno di 50 anni e sfiora il 9% fra quelle di 50-69 anni), è più frequente fra gli uomini che fra le donne (5,1% contro 4,2%), nelle fasce di popolazione socio-economicamente più svantaggiate per istruzione o condizioni economiche”. Il sistema sorveglianza Passi dell’Istituto superiore di sanità (ISS) ha aggiornato gli ultimi dati sul diabete 2020-2021.
Secondo il report, le regioni dove è più alta la prevalenza del diabete nella popolazione sono: Calabria a 6,8% e in Valle d’Aosta al 10,2. Le migliori invece sono: Puglia 3,3%, provincia di Trento 2,3% e Toscana 2,6%. Secondo la sorveglianza Passi, la prevalenza dei diabetici è “sostanzialmente stabile dal 2008” e “le variazioni che risultano dalle analisi delle serie temporali sono per lo più da imputare a un cambio nel questionario Passi somministrato nell’indagine 2011-2012″.
Per quanto riguarda il monitoraggio e la terapia del diabete, “un terzo dei pazienti diabetici riferisce di essere seguito esclusivamente dal centro diabetologico (32%), un terzo solo dal proprio medico di medicina generale (31%), un terzo da entrambi (32%). Pochi dichiarano di essere seguiti da altri specialisti (3%) e 2 su 100 riferiscono di non essere seguiti da nessuno“, si legge nel report.
Staminali, Piemonti (S. Raffaele): “da pluripotenti speranza per diabete e futuro senza insulina”
“L’anno scorso abbiamo festeggiato i 100 anni dell’insulina, che è stata una vera rivoluzione perché ha trasformato una malattia che era mortale come il diabete all’esordio in una malattia oggi cronica, degenerativa, come il diabete di tipo 1 che però ruba ancora 12 anni di attesa di vita alle persone, nonostante le migliori terapie che possiamo mettere in campo. Ora stiamo lavorando con intensità per un mondo libero da insulina”. Lo dichiara all’Adnkronos Salute Lorenzo Piemonti, Direttore del Diabetes Research Institute (Dri) e della neo costituita Unità di medicina rigenerativa e dei trapianti dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano.
“Ci piacerebbe che il 14 novembre” in un futuro non troppo lontano “non sia più la celebrazione della Giornata del Diabete, ma che diventi il giorno in cui ci sveglieremo e non avremo più bisogno dell’insulina. Per il diabete di tipo 1 le conquiste più rilevanti in questo ultimo anno sono state soprattutto legate agli approcci di medicina rigenerativa“, dice ancora Piemonti, secondo cui i “farmaci viventi” potrebbero rappresentare la strada per raggiungere l’obiettivo di un mondo libero dall’insulina.
“Il diabete di tipo 1 è caratterizzato dalla perdita della funzione di secrezione di insulina da parte delle cellule che la producono, le quali vengono distrutte dal sistema immunitario. Dopo anni in cui abbiamo tentato di ricostruire queste cellule usando i donatori d’organo come sorgente, negli ultimi anni si è sviluppata una nuova tecnologia che permette di superare i limiti esistenti, cioè non avere abbastanza donatori per curare tutti i pazienti con diabete e dover utilizzare necessariamente l’immunosoppressione”, perché il donatore d’organo ha un diverso sistema di esprimere le proteine e quindi va evitato il rigetto. “La grande novità parte circa 14 anni fa in laboratorio, e arriva 6 anni fa ai primi tentativi nell’uomo. Nell’ultimo anno si è riusciti a dimostrare che è possibile ottenere insulino-indipendenza e quindi la guarigione dal diabete, mettendo in campo delle cellule che producono insulina – spiega l’esperto – derivate da cellule staminali pluripotenti. E’ una svolta potenziale, perché l’ultimo miglio è sempre quello più difficile da percorrere. Ma oggi abbiamo tutti gli strumenti e la preparazione clinica per applicare la terapia cellulare al diabete”.
Questo, ricorda Piemonti, “è stato l’anno in cui nelle linee guida ministeriali è stato inserito, in alcune condizioni di malattia, il trapianto di isole pancreatiche, che è una terapia cellulare del diabete ora standardizzata. Su questa base si è cominciato a cambiare fondamentalmente la sorgente delle cellule. E si è ottenuto un risultato importante: il primo paziente negli USA trattato con queste cellule è diventato insulino-indipendente. Potenzialmente, dunque, oggi potremmo slegarci dal problema della donazione, risolvendo il primo ostacolo che impedisce che una cura simile possa essere estesa a tutti i pazienti col diabete di tipo 1 e anche in una parte di quelli con diabete di tipo 2″.
Sull’immunosoppressione, prosegue, “esistono più approcci che possono essere utilizzati: alcuni sono in pipeline per i primi studi clinici e presumibilmente entro un anno avremo anche risultati su questo, ma è un’area che ha ancora bisogno di prove sull’efficacia nell’uomo, non solo nei modelli animali e in vitro. Per superare la necessità dell’immunosoppressione una strategia, per esempio, è mettere queste cellule all’interno di alcuni ‘contenitori’ che impediscono al sistema immunitario di riconoscerle come estranee. Oppure si possono aggiungere o togliere nelle cellule alcuni geni che permettono il riconoscimento da parte del sistema immunitario. E’ come se il sistema immunitario avesse un lettore di codici a barre, come quelli che usiamo al supermercato, e in ogni cellula ci fosse un codice a barre. Se il lettore non riconosce quel codice, attacca la cellula. Ma questo codice oggi è modificabile in modo da ingannare il sistema immunitario. Con le staminali – sottolinea Piemonti – basta che lo facciamo con una cellula e tutte quelle che ne deriveranno porteranno la stessa modifica”.
L’orizzonte temporale perché la promessa della medicina rigenerativa si concretizzi? “E’ difficile definirlo – riflette – ma credo che nei prossimi 5 anni avremo concluso la prima fase di sperimentazione nell’uomo, che ci dirà quanto questo tipo di approccio è in grado effettivamente di curare. Si passerà poi agli studi di fase 2-3, con un numero più consistente di persone. Si capirà anche chi può essere curato. E se questi studi porteranno alla conferma della validità dell’approccio, poi estenderlo alla popolazione con diabete sarà solo una questione legata alla capacità di produzione, ma chi ha investito su questo tipo di modello di medicina rigenerativa si sta già attrezzando. Perché è l’orizzonte più interessante dei prossimi anni: poter applicare farmaci viventi non solo ad alcune malattie rare, ma anche a patologie che possono avere un maggior impatto”.
Piemonti: “promessa terapia 2 in 1, nel mirino diabete 2 e obesità”
“Per il diabete di tipo 2 ci sono novità che ci fanno guardare con un certo ottimismo al futuro. Da un lato, oggi esistono farmaci già disponibili che si stanno dimostrando sempre più in grado, se non di guarire la malattia, di evitarne il rischio cardio-renale, che può trasformare la patologia in un infarto o in una dialisi, un passaggio peggiorativo da tutti i punti di vista. L’altra novità è che esiste un farmaco, non ancora arrivato in Europa ma già presente negli USA, che fa più cose contemporaneamente, e con il quale si sono ottenuti dei risultati notevolmente importanti nella terapia del diabete, nel controllo sia della glicemia sia dell’obesità“, ha detto ancora Piemonti all’Adnkronos Salute.
Il diabete di tipo 2, evidenzia l’esperto, “è una malattia complessa perché ha dei determinanti anche culturali e sociali oltre che economici. Per esempio, è molto più diffusa nelle aree urbane che in quelle rurali, nelle fasce di popolazione a basso reddito rispetto a quelle ad alto reddito. E’ più legata ai comportamenti e agli stili alimentari, all’inquinamento e ad alcuni elementi dell’ambiente che vanno ad alterare la nostra capacità metabolica. Ci sono tanti aspetti dietro questa malattia, insomma”.
Il nuovo farmaco ‘bivalente’ che mette nel mirino obesità e diabete, spiega, “sta dimostrando sempre di più che questa malattia ha un’origine molto legata a una disfunzione endocrina dell’intestino, prima ancora che del pancreas. Andando a mimare alcuni di quei meccanismi che sono andati un po’ persi nell’attività endocrina dell’intestino, si può da un lato intervenire farmacologicamente sul controllo dell’obesità che è uno dei fattori di rischio con un ruolo importante nel diabete di tipo 2. Questi farmaci possono ridurre in maniera significativa il peso senza effetti collaterali problematici e di conseguenza, specie laddove il diabete è trainato da un eccesso di peso, controllare e talvolta far regredire la malattia diabetica“.
La molecola a cui fa riferimento Piemonti si chiama “tirzepatide” e agisce “su due recettori, Glp-1 e Gip, entrambi ormoni, prodotti normalmente dall’intestino e in questo caso stimolati direttamente dal farmaco, che regolano anche il nostro comportamento alimentare”. “Se un tempo l’intestino era visto come un tubo nel quale passavano gli alimenti, oggi dopo una rivoluzione culturale che c’è stata sappiamo che è un organo estremamente complesso sia da un punto di vista ormonale che immunologico. Dentro questa conoscenza si inseriscono questi farmaci – illustra Piemonti – E questa in particolare è una singola molecola che riesce ad agire su due ormoni. La somma di questi due effetti è più efficace. Funziona bene nel regolare e invertire in parte l’obesità e sarà un farmaco che probabilmente verrà utilizzato ampiamente per questo scopo. E l’altra cosa che fa è abbassare la glicemia. Negli USA, il farmaco è già approvato e disponibile, costa circa 12mila dollari all’anno come terapia, non è quindi un farmaco complesso con un grande costo“.
Potrebbe trattarsi di un approccio “game changer“, riflette lo specialista. “Tanto che nel campo del diabete nel prossimo congresso un tema sarà proprio questo: c’è ancora spazio per la terapia insulinica nel paziente con diabete di tipo 2? Ne avremo ancora bisogno per curarlo, con tutti questi farmaci che ora arrivano? L’ho detto e lo ripeto: questo è il nostro sogno, vogliamo un mondo libero dall’insulina, che è un farmaco che ha fatto la rivoluzione e che ci piace, ma ormai ha compiuto 100 anni ed è ora di mandarlo in pensione. E’ una battaglia che non deve vincere solo la scienza. Ci deve essere una comunione di intenti con tutti e credo che forse i tempi siano maturi, al di là delle contingenze complesse in cui viviamo. Oggi esiste una massa di conoscenze tali che ci permette di ragionare in maniera diversa rispetto al modo in cui venivano concepite alcune malattie finora”. E il diabete “è sempre stato apripista – afferma Piemonti – l’insulina è stato il primo farmaco sintetizzato con la tecnologia del Dna ricombinante. Prima l’ormone veniva estratto dal pancreas del maiale, poi negli anni ’80 è stato possibile sintetizzarlo. E sarà il diabete una delle prime malattie in cui probabilmente si applicherà in maniera sistematica l’approccio della medicina rigenerativa basata su cellule staminali. Almeno questa è la nostra speranza”.
Piemonti: “le terapie cellulari sono una sfida ma c’è il nodo costi”
“Le terapie cellulari in generale hanno ancora dei costi molto elevati. Quelle entrate in commercio vanno da qualche decina di migliaia di euro fino a più di un milione di euro. Al momento, essendo indicazioni rare, si può immaginare di spendere tanto, ma se si vuole applicare questa tipologia di trattamento su larga scala solo pensando ai diabetici di tipo 1 sarebbero 200-300mila persone, numeri non piccoli. Questi aspetti saranno una scommessa, che dipende dal successo che dimostreranno questi farmaci viventi. Noi ci stiamo investendo”, ha spiegato ancora Piemonti all’Adnkronos Salute.
“Oggi abbiamo deciso di costruire un’unità vera e propria di clinica dedicata alla medicina rigenerativa e dei trapianti, con l’obiettivo di implementare questo tipo di approccio. Credo che sia un dovere della comunità scientifica cominciare a prevedere che nei prossimi anni avremo a che fare con malattie trattate sempre di più con questo tipo di farmaci che richiedono una ‘expertise’ diversa rispetto ai tradizionali e anche un modello organizzativo diverso – osserva l’esperto – Oggi siamo abituati ad avere al letto del paziente il medico, ma quando si lavora con queste terapie c’è anche il biologo delle staminali, il bioingegnere, è una comunità molto più allargata e multidisciplinare. Crediamo molto in questa prospettiva. E se la terapia ha successo senza immunosoppressione, secondo me ci vorrà poco perché si cominci a produrre su grande scala“.
La scienza, conclude Piemonti, “può indicare che esiste un modo” per affrontare un problema. “La velocità e la possibilità di perseguirlo dipendono da scelte molto più ampie, che hanno a che fare con modelli economici che supportino questa modalità indicata dalla scienza, e modelli culturali che facciano altrettanto. Deve essere un’alleanza di tutti gli attori, non solo gli scienziati o i medici, ma tutto il sistema socioculturale, politico, economico. Tutti devono ragionare in una maniera che permetta in parte di uscire dalla dinamica in cui si rincorre sempre la malattia, e si va a curare il paziente in una fase in cui si è già ‘persa la battaglia’, e si cominci invece a ragionare per risolvere queste malattie, prevenendole o curandole in maniera definitiva. Togliere quell’etichetta di cronicità che oggi sta diventando un peso insopportabile per chi ha la malattia cronica – in termini psicologici e di qualità di vita – ma anche per i sistemi sanitari che oggi come oggi non reggono più. Questa è la scommessa – rimarca lo scienziato – che sta dietro a questo passaggio culturale di utilizzare le terapie rigenerative”.