Come i Paesi BRICS e la CO₂ stanno rimescolando le carte geopolitiche: COP28 ad alto rischio

Il potere dei Paesi BRICS risiede nel loro controllo delle riserve di petrolio e gas: la loro volontà di crescita economica rischia di trasformare in un fallimento la COP28
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Il gruppo dei Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) ha deciso di espandersi: Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti si uniranno l’1 gennaio 2024. Bisogna prestare molta attenzione al potere dei BRICS, che deriva dal loro controllo sulle riserve di petrolio e gas. Questi Paesi sono anche preoccupati per la propria crescita economica e quella dei loro clienti nel Sud del mondo, quindi la COP28 del prossimo novembre si preannuncia già un fallimento per l’agenda dell’UE, sottolinea un articolo pubblicato su “Factuel” a cura di Samuel Furfari, ingegnere politecnico dell’Université libre de Bruxelles e Professore di geopolitica e politica energetica. Per 36 anni, Furfari è stato un altro funzionario presso la Direzione generale dell’energia della Commissione europea.

I BRICS sono un raggruppamento informale, proprio come il G7 o il G20. Questi 11 Paesi hanno un peso considerevole su scala globale. Costituiscono il 36% della superficie terrestre mondiale, rispetto al 16% del G7. Con il 45% della popolazione mondiale, sono quasi cinque volte più popolosi dei Paesi del G7. In termini economici, gli 11 Paesi dei BRICS sono anche più grandi del G7 (37% del PIL mondiale rispetto al 30% del G7). Anche sul piano alimentare vanno meglio del G7: producono quasi la metà del grano e il 55% del riso. Brasile, India e Argentina sono tra i primi cinque Paesi esportatori di carne bovina. Sono anche dominanti nella produzione di acciaio e alluminio. L’acciaio, così vitale per l’industria edile e automobilistica, è prodotto per il 70% negli 11 Paesi BRIC, tra cui cinque degli undici principali produttori mondiali. L’alluminio, metallo essenziale per la vita moderna, soprattutto nel settore della mobilità, è per quasi l’80% nelle mani di questo gruppo di Paesi.

Chiaramente, la Cina è il peso massimo in quasi tutti questi confronti. La maggior parte degli economisti, sia interni che esterni alla Cina, prevede che la sua economia cresca del 5% annuo.

Nuova geopolitica

Diventa sempre più chiaro che le carte geopolitiche vengono rimescolate, sottolinea Furfari nel suo articolo. La nascita dell’“officina del mondo” (la Cina) e dell’“ufficio del mondo” (l’India), grazie all’enorme potenza di fuoco di una popolazione finalmente istruita e non più dipendente dall’agricoltura di sussistenza, sta suscitando l’interesse di chi è ora chiamato il “Sud del mondo”. Questo neologismo si riferisce a Paesi che sono stati descritti come “emergenti”, “in via di sviluppo” o addirittura “meno sviluppati o sottosviluppati”. La maggior parte di questi Paesi si trova nel sud del mondo, principalmente in Africa, Asia e America Latina.

Questi Paesi, i loro leader, le loro popolazioni e, soprattutto, i loro giovani vogliono solo vivere bene, come i Paesi del G7. C’è solo una condizione per questo: la crescita economica. La Cina dimostra che la crescita economica è possibile anche in una dittatura. Il corollario della crescita economica è la crescita dei consumi energetici: senza energia non può esserci lavoro e senza lavoro non può esserci crescita economica e quindi sviluppo sociale.

L’ascesa dell’India

A differenza del fallito sbarco sulla Luna da parte della Russia il 19 agosto, il riuscito atterraggio del modulo lunare indiano vicino al polo sud della Luna il 23 agosto conferma la padronanza dell’India nella tecnologia spaziale. Ciò dà all’India il diritto di affermare di essere una potenza leader. Dei quattro Paesi che sono sbarcati con successo sulla Luna, tre sono membri del BRICS (Cina e Russia prima dell’India). Il successo dello sbarco sulla Luna di Chandrayaan-3 conferma il posto dell’India nell’Accordo Artemis, l’iniziativa multilaterale guidata dalla NASA per inviare uomini sulla Luna entro il 2025.

Un altro ambito in cui l’India ha sorpreso sono gli straordinari progressi compiuti nell’elettrificazione del Paese, un parametro chiave della prosperità. Milioni di indiani hanno sofferto di uno sviluppo economico arretrato, che ha influito negativamente sull’assistenza sanitaria e sulla qualità della vita. La scarsa illuminazione impediva alle persone di lavorare dopo il tramonto e la mancanza di pompe dell’acqua limitava l’uso dei moderni servizi igienici. Dal 2000, i governi che si sono succeduti sono determinati a porre fine a questa povertà energetica, che si manifesta principalmente nella mancanza di elettricità. Oggi, il 99% degli indiani è connesso alla rete, anche se la popolazione è cresciuta da 926 milioni nel 1993 a 1.428 milioni oggi. Trent’anni fa, quella percentuale era solo del 50%. Come è stato possibile? È stato l’uso massiccio del carbone a rendere possibile questa rivoluzione elettrica. Trent’anni fa, l’India consumava 5,36 exajoule (EJ) di carbone, rispetto ai 20,09 EJ di oggi. Il 75% dell’elettricità indiana è generata dal carbone, tanto criticato nell’UE. Non può esserci miracolo economico senza energia abbondante ed economica, come ha dimostrato la Cina.

Ovviamente, a differenza dell’Europa, le autorità indiane non sono ossessionate dalla riduzione delle emissioni di CO₂. Ecco perché l’India, insieme alla Cina, si è opposta all’inclusione della necessità di ridurre il consumo di carbone nelle conclusioni della COP26 di Glasgow.

Il 25 agosto, il Ministro indiano dell’Elettricità e delle energie nuove e rinnovabili, Shri R. K. Singh, ha chiesto un cambiamento nel discorso e nell’argomentazione sul cambiamento climatico globale, spostando l’attenzione dalle emissioni totali alle emissioni pro capite in ciascun Paese. Sul sito web del Ministero dell’Energia, il suo appello è chiaro: “le emissioni pro capite dell’India sono un terzo della media globale, una delle più basse al mondo; nonostante ciò, fino a poco tempo fa i Paesi sviluppati hanno esercitato pressioni su grandi Paesi come l’India affinché riducessero le proprie emissioni. Le loro emissioni pro capite sono rimaste da tre a quattro volte superiori alla media globale. Il discorso riguardava [finora] le emissioni totali di ciascun Paese”. Shri Singh ha dato il colpo di grazia dichiarando che “il patrimonio immobiliare dei Paesi in via di sviluppo si moltiplicherà man mano che cresciamo. Avremo bisogno di più cemento, acciaio e alluminio per costruire questi edifici e queste fabbriche. Ciò comporterà un aumento delle emissioni. Quindi dobbiamo svilupparci”.

COP28 ad alto rischio

Il Sud del mondo ha capito che se vuole svilupparsi, deve farlo consumando combustibili fossili ed emettendo quindi CO₂. Con il 46% del consumo mondiale, gli 11 Paesi dei BRICS sono grandi consumatori di energia: 35% del petrolio mondiale, 36% del gas naturale e 72% del carbone. Detengono il 42% delle riserve di petrolio, il 50% di quelle di gas e addirittura il 40% di quelle di carbone. Il loro futuro energetico è quindi sicuro. Chiaramente questo non è il caso dell’UE – sottolinea Furfari nel so articolo – che è isolata in questo settore perché anche il suo alleato privilegiato, gli Stati Uniti, ha assicurato il proprio futuro energetico grazie allo shale oil e al gas. Con rispettivamente il 9% e il 17% delle riserve mondiali di petrolio e gas, gli 11 Paesi dei BRICS si sono assicurati una quota significativa del loro fabbisogno di idrocarburi.

A novembre-dicembre, a Dubai si terrà la COP28, la Conferenza annuale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che continuerà ad insistere sulla necessità di ridurre le emissioni.  Tutti questi dati e tutte queste considerazioni fanno capire che la COP28 è ad alto rischio.

Il declino dell’Ue

Non solo i BRICS sono grandi consumatori, ma hanno anche bisogno di clienti per garantire la loro crescita. Il Sud del mondo non vuole un consumo fine a se stesso, ma per la necessità di uscire dalla povertà o addirittura per limitare l’emigrazione, che, se continuasse, avrebbe conseguenze dannose per i Paesi africani. I BRICS e il Sud del mondo sono quindi alleati oggettivi per la crescita economica e consumeranno quindi più energia. Dato che, dopo cinquant’anni di ricerca e promozione, l’energia eolica e solare fotovoltaica rappresentano solo il 3% della domanda di energia primaria a livello globale e nell’UE, la domanda di energia convenzionale (combustibili fossili, nucleare e idroelettrica) non potrà che aumentare.

Nel frattempo, nell’UE, che è il grande perdente in questo sviluppo dei BRICS, la ragion d’essere è la decarbonizzazione. Un obiettivo utopico, che rischia di portare al declino economico e demografico, conclude Furfari.

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