Che la pandemia abbia avuto un profondo impatto sulla salute mentale di ampie fasce della popolazione è un fatto ormai noto. Che questo disagio psicologico diffuso abbia iniziato ad assumere la forma di disturbi della capacità visiva è invece qualcosa di nuovo. Nel mese in cui si accendono i riflettori sulla salute degli occhi, gli esperti dell’Ospedale San Giuseppe – MultiMedica di Milano richiamano l’attenzione sul fenomeno. In uno studio di prossima pubblicazione, evidenziano come i pazienti con “perdita visiva funzionale” o “cecità funzionale” – deficit più o meno grave della vista caratterizzato dall’assenza di alterazioni organiche rilevate dall’esame oculistico – siano più che raddoppiati nel post pandemia.
L’osservazione clinica ha preso in esame e messo a confronto i pazienti transitati dagli ambulatori di oftalmologia dell’Ospedale San Giuseppe in un periodo antecedente la pandemia da Covid (da gennaio a giugno 2019) con quelli seguiti in un intervallo di tempo di analoga durata ma nel post pandemia (da gennaio a giugno 2023). Su un totale di circa 3.600 soggetti visitati in entrambi i periodi, i casi di perdita visiva funzionale sono stati 144 nel pre-pandemia contro i 326 del post, con un raddoppio dell’incidenza passata dal 4 al 9%. Sia nel primo che nel secondo periodo, oltre l’80% delle diagnosi riguardava minori.
“Se escludiamo quei soggetti che fingono intenzionalmente il sintomo – come i bambini che, per emulare il fratello o il compagno di classe, vorrebbero mettere gli occhiali anche se non ne hanno bisogno – e che il medico ‘smaschera’ facilmente, resta una fetta consistente di pazienti affetti da un disturbo di conversione”, spiega Andrea Lembo, medico oftalmologo dell’Ospedale San Giuseppe e autore dell’analisi. “Si tratta di una forma di somatizzazione in cui un disagio psicologico viene involontariamente proiettato dal soggetto in un sintomo fisico, un po’ come quei bambini a cui viene il mal di pancia perché sono in ansia per la verifica a scuola. Nel nostro caso, il disagio si manifesta sotto forma di difficoltà visiva, ad esempio nel vedere la lavagna, appannamento, bruciore oculare, cefalea, riduzione del campo visivo e altri disturbi legati alla vista. Riteniamo che l’aumento di questi casi, riscontrato negli ultimi mesi, possa essere in qualche modo correlato alla pandemia da Covid per i profondi cambiamenti psicosociali che ha portato con sé”.
La gestione della cecità funzionale richiede innanzitutto un’anamnesi accurata da parte dello specialista, che dev’essere attento nel cogliere l’eventuale incompatibilità tra i sintomi e la quotidianità riferiti dal paziente (dice di non vedere ma gioca a tennis), e deve cercare di arrivare alla diagnosi senza un numero eccessivo di esami strumentali, volti a escludere altre patologie. “Nel caso dei minori – evidenzia Lembo – il dialogo con il genitore è fondamentale, per arrivare alla diagnosi e risalire al problema che può essere alla base del disturbo di conversione. In molti ci hanno raccontato che il confinamento dovuto alla pandemia aveva influito sulla psicologia dei propri figli, limitando la loro capacità di interagire e socializzare con i coetanei”.
In secondo luogo, va valutata con attenzione la risposta terapeutica da dare ai pazienti, che deve basarsi soprattutto sulla loro rassicurazione. “Rassicurare non significa sottovalutare o sminuire quello che ci riferiscono i nostri assistiti – precisa Lembo – ma aiutarli a individuare strategie efficaci per attenuare i sintomi che lamentano. Intendo suggerimenti anche molto semplici, come guardare 30 secondi fuori dalla finestra per non sovraccaricare l’accomodazione dell’occhio in un videoterminalista, o chiudere gli occhi 5 secondi per farli riposare e capire se le immagini della lavagna tornano nitide, in un bambino in età scolare. Si può arrivare anche a utilizzare l’effetto placebo. Nei pazienti che continuavano a riferire un certo sintomo, soprattutto bambini, nonostante la nostra rassicurazione, prima di procedere con una risonanza magnetica abbiamo provato a dare degli occhiali con lenti neutre. In diversi casi ha funzionato, evidentemente perché il bambino si è sentito in qualche modo protetto. Ci sono anche i casi in cui abbiamo optato per ulteriori accertamenti, come di fronte a cefalee persistenti, per le quali una second opinion in un ambulatorio di neurologia è senza dubbio una scelta appropriata”.
“Pur essendo la nostra una disciplina estremamente specialistica, non può non riflettere i cambiamenti profondi della società”, aggiunge il professor Paolo Nucci, senior consultant della University Eye Clinic San Giuseppe e Professore Ordinario di Oftalmologia presso l’Università degli Studi di Milano. “Oltre al dramma che abbiamo vissuto, la pandemia ha prodotto una serie di conseguenze dirette sulla psicologia di tutti noi. E questi strascichi emotivi stanno producendo effetti anche sulla percezione visiva. In più, già da tempo assistiamo all’affermarsi di modelli che, attraverso i social media, impongono messaggi di perfezione surreale in ogni ambito della vita. I giovani rischiano di sentirsi costretti a conformarsi alle aspettative sociali per essere accettati dagli altri, con inevitabili ripercussioni sulla loro salute mentale. Di fronte a questo scenario, possiamo ipotizzare che l’incidenza della cecità funzionale nei prossimi anni continuerà a crescere”.
Molti dei pazienti che afferiscono all’Ospedale San Giuseppe di Milano provengono dalla Lombardia, regione colpita per prima dall’ondata epidemica, dove i timori dovuti al dilagare dell’infezione e alle limitazioni imposte alla circolazione sono perdurati e hanno avuto modo di incidere più a lungo sulla popolazione. Uno dei possibili sviluppi futuri dello studio potrebbe, quindi, essere un’estensione dell’indagine ad altri centri oftalmologici, per valutare eventuali differenze nell’incidenza dei casi di perdita visiva funzionale in regioni colpite in modo diverso dalla pandemia.