Cambiamenti climatici: approvato il Piano nazionale di adattamento

"Un passo importante per la pianificazione e l’attuazione di azioni di adattamento"
MeteoWeb

Il Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, con decreto n. 434 del 21 dicembre 2023, ha approvato il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. Il Piano contiene “oltre 360 azioni rivolte ai sistemi naturali, sociali ed economici” per rispondere “alla sfida dei cambiamenti climatici“. Si tratta – riferisce il Ministero, di “un passo importante per la pianificazione e l’attuazione di azioni di adattamento ai cambiamenti climatici nel nostro Paese“.

Nel 2022, precipitazioni fino al -40%

Con riferimento al 2022, le precipitazioni sono state ben inferiori alla media climatologica, soprattutto durante l’inverno e la primavera nell’Italia centro-settentrionale, con anomalie precipitative superiori a -40% rispetto al periodo 1991-2020; diverse aree del Nord Italia hanno sperimentato condizioni di siccità severa ed estrema. Lo indica il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. Un lunghissimo periodo di giorni asciutti consecutivi, che ha comportato danni all’agricoltura e agli allevamenti, è stato registrato ad esempio presso la stazione meteorologica di Torino nel periodo di febbraio/marzo. L’estate è stata caratterizzata da un caldo intenso e prolungato; un’ondata di calore a fine giugno ha investito le regioni centro-settentrionali, con temperature massime che hanno superato i +38°C in diverse stazioni di misura.

Calo dell’idroelettrico

Il 2022 è stato un anno particolarmente siccitoso e il dato Terna aggiornato a ottobre 2022 “vede una riduzione progressiva annua di produzione da idroelettrico pari al -37,6% rispetto al 2021”, si legge nel Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. “In relazione alla produzione di energia elettrica il tendenziale incremento dell’intensità e della frequenza degli eventi estremi di precipitazione, se accompagnato da una riduzione della precipitazione cumulata, può incidere direttamente sulla produzione idroelettrica. In tal senso un fattore di enorme rilevanza è la variabilità delle precipitazioni e l’aumento della frequenza dei periodi siccitosi con conseguenti problemi dal punto di vista gestionale, soprattutto se alcuni invasi dovessero essere chiusi per la mancanza di condizioni economiche per il loro sfruttamento”, si legge nel documento.

Perso fino al 40% del volume dei ghiacciai

La criosfera, l’insieme di neve, ghiacciai e permafrost, è fortemente impattata dai cambiamenti climatici: negli ultimi decenni la durata e lo spessore della neve si sono fortemente ridotti così come lo stock idrico nivale che si accumula ogni anno a fine inverno. I ghiacciai hanno già perso dal 30 al 40% del loro volume”. È quanto si legge nel Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. “Il cosiddetto ‘peak water’, il fenomeno di aumento temporaneo della portata dei torrenti di montagna causata dall’incremento della fusione glaciale che si esaurisce quando il ghiacciaio si estingue o si ritira a quote talmente elevate da non poter più fondere, è già stato raggiunto nella maggior parte dei bacini glaciali italiani”, si precisa nel Piano.

La temperatura del permafrost sta aumentando in modo significativo in tutti i siti di misura alpini così come lo spessore dello strato di terreno o roccia che annualmente viene scongelato. Queste tendenze continueranno nei prossimi decenni in funzione dell’intensità dell’aumento delle temperature globali. La durata della copertura nevosa nei fondo-valle e sui versanti meridionali fino a 2.000 metri si ridurrà di 4/5 settimane e di 2/3 settimane a 2.500 metri. Il ritiro dei ghiacciai continuerà ad accelerare così come la degradazione del permafrost”, si legge ancora.

Livello e temperatura dei mari

Secondo quanto emerge dal quadro delineato dal Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, in Italia – nei prossimi 40 anni (o poco più) – le temperature del mare aumenteranno anche di oltre 2°C e il livello delle acque raggiungerà più 19cm in alcune aree marine. Nella parte dedicata al quadro climatico nazionale e alla valutazione delle proiezioni – attese per il periodo 2036-2065, rispetto ai dati delle simulazioni climatiche per il periodo 1981-2100 – sono state infatti identificate due variabili per descrivere l’impatto sui mari italiani: la temperatura superficiale dell’acqua e il livello del mare. Nell’analisi si tengono come base di riferimento le osservazioni relative allo scenario ‘business as usual’ dell’ultimo rapporto dell’IPCC.

Le anomalie di temperatura – viene spiegato nel Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici – vanno dagli 1,9°C in più del Mar Tirreno ai 2,3°C per il Mar Adriatico (anche ai 2,6°C in inverno). Per quanto riguarda la crescita del livello del mare, nel Mar Tirreno e nel Mar Ligure si arriva fino a 19cm in più.

“Il Mar Mediterraneo è uno dei mari più sfruttati al mondo, messo a dura prova da enormi pressioni come inquinamento, sviluppo costiero, sovrasfruttamento ittico, attività antropiche, ecc. cui si aggiungono i cambiamenti climatici: questi ultimi, interagendo con gli effetti di altri disturbi antropici tendono ad esacerbarne gli effetti, con conseguenze poco prevedibili e difficili da gestire“, si legge nel Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici. “La regione mediterranea è una delle aree più vulnerabili ai cambiamenti climatici globali a causa della sua posizione geografica tra il clima temperato dell’Europa centrale e il clima arido dell’Africa settentrionale. Per la sua modesta estensione e la caratteristica di essere un mare semi-chiuso, i cambiamenti indotti dal riscaldamento globale possono provocare risposte a livello biologico più rapide rispetto a quanto riscontrato in altri sistemi su scala globale“, viene spiegato.

Per questo, avverte il Piano, il Mediterraneo “rischia di diventare sempre più caldo, e di subire profondi mutamenti sia in termini di composizione (biodiversità, specie aliene, composizione delle comunità) sia in termini funzionali (alterazione cicli biogeochimici, cambiamento delle reti trofiche) con un aumento della vulnerabilità e dei tassi di estinzione dei suoi componenti. La perdita di capitale naturale comporterà, inoltre, la riduzione dei beni e della ricchezza (servizi ecosistemici) che gli ecosistemi garantiscono all’uomo con conseguenti implicazioni sociali ed economiche”.

Consumato oltre un quinto della fascia costiera

In Italia, dove la forte antropizzazione delle aree costiere ha causato negli anni una forte crescita della numerosità di persone e attività, è andata aumentando l’esposizione al rischio costiero. Il consumo di suolo nella fascia costiera italiana ha, infatti, valori nettamente superiori rispetto al resto del territorio nazionale. È ormai artificializzato il 22,8% della fascia costiera entro i 300 metri, il 18,9% tra i 300 e i 1.000 metri e l’8,7% tra 1 e 10km, a fronte di un 7,1% del resto del territorio. A livello nazionale più di un quinto della fascia compresa entro i 300 metri dal mare è ormai consumato: tra le regioni con valori più alti entro i 300 metri dalla linea di costa si evidenziano Marche e Liguria, con quasi la metà di suolo consumato, Abruzzo, Emilia-Romagna, Campania e Lazio con valori compresi tra il 31% e il 37%. Tra i 300 metri e i 1.000 metri le stesse regioni (ad eccezione del Lazio) presentano valori uguali o superiori al 30% di suolo consumato“. Lo si legge nel Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici.

In un territorio peculiare e unico come questo, all’innalzamento del livello medio del mare assoluto dovuto a fattori climatici, si va infatti a sommare localmente anche la perdita di quota dovuta al compattamento degli strati argillosi e sabbiosi del sottosuolo (subsidenza) – precisa il testo – È, infatti, il movimento verticale del terreno ad acuire localmente il fenomeno globale dovuto ai cambiamenti climatici. Tali sistemi, collocati sul livello medio del mare o al di sotto (es. lagune, litorali, fiumi, pianure, centri abitati e relative infrastrutture e beni culturali), risultano esposti al rischio di inondazione, sia da mare che da terra, di perdita di habitat e di riduzione della qualità delle acque“.

Il Piano evidenzia “come i fenomeni meteorologici possano diventare più violenti a causa dell’aumento della temperatura del mare che ha conseguenze su quanto accade in atmosfera, oltre a provocare gravi impatti sulla biodiversità marina e a contribuire all’innalzamento del livello del mare. Il mare, infatti, trasferisce più calore all’atmosfera e quest’ultima scarica violentemente questo eccesso di energia sul territorio con piogge molto intense e venti forti“. Innalzamento del livello del mare e incremento della frequenza degli eventi estremi “sono i due principali fattori impattanti sul sistema fisico costiero: erosione costiera e inondazione temporanea dovuta alle tempeste sono piuttosto comuni lungo le coste italiane, in particolare nelle aree con spiagge basse“.

Nel periodo compreso tra il 2007 e il 2019 il 37,6% dei litorali ha subìto variazioni superiori a 5 metri, si legge nel testo. In molte regioni costiere si registra una tendenza generale al peggioramento della stabilità dei litorali, in altri termini molte aree costiere del Paese sono gravate da importanti processi di erosione sebbene il 16% delle coste italiane, pari a 1.291km, sia protetto con opere di difesa. “Tra il 2007 e il 2019 sono state realizzate nuove opere a protezione di ulteriori 180km di costa ma l’effetto dei numerosi sforzi compiuti negli anni per mitigare il dissesto costiero è visibile solo in alcune zone del Paese – aggiunge il testo – la Calabria, la Sicilia, la Sardegna e la Puglia sono in ordine le regioni con il maggior numero di chilometri di costa in arretramento (Fig. 12). In uno scenario di emissioni medie una stima effettuata dal CMCC al 2050 indica una retrocessione media delle coste caratterizzate da spiagge di circa 17 metri”.

Dissesto, oltre 2 miliardi all’anno

“I fenomeni di dissesto geologico, idrologico e idraulico (inondazioni, frane, erosioni e sprofondamenti) sono diffusi e frequenti in Italia e hanno già provocato vittime e gravi danni ad ambiente, beni mobili e immobili, infrastrutture, servizi e tessuto economico e produttivo con ingenti conseguenze economiche (più di due miliardi di euro all’anno)”, si legge nel Piano. “Sebbene le peculiarità naturali del territorio italiano (caratteristiche geologiche, geomorfologiche meteorologiche e climatiche) giochino un ruolo fondamentale nell’origine di tali fenomeni, diversi fattori antropici contribuiscono in maniera determinante all’innesco o all’esacerbazione delle loro conseguenze”.

Negli ultimi tempi si è notato che i cambiamenti climatici stanno causando un aumento delle portate e dei volumi di piena lungo i principali corsi d’acqua del nostro paese. Queste anomalie di portate e volumi di piena si manifestano attraverso precipitazioni più intense e concentrate, che portano a piene improvvise e rapide soprattutto in bacini di piccole e medie dimensioni (fenomeno noto come flash flood). Inoltre, nelle aree urbane si sta registrando un significativo aumento sia della forza che della frequenza delle alluvioni urbane (conosciute come pluvial floods). Quest’ultimo fenomeno si manifesta principalmente a causa di una “incapacità del sistema di drenaggio di gestire e smaltire rapidamente grandi quantità di acqua piovana”.

L’elevata vulnerabilità del nostro Paese è ben rappresentata dai dati dell’ultimo Rapporto ISPRA sul “Dissesto idrogeologico in Italia: pericolosità e indicatori di rischio”: quasi il 94% dei comuni italiani è a rischio per frane, alluvioni e/o erosione costiera e oltre 8 milioni di persone abitano nelle aree ad elevata pericolosità.

Senza mitigazione e con i fossili, CO2 quadruplicata al 2100

In uno scenario ad elevate emissioni, il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici prevede, entro il 2100, concentrazioni atmosferiche di CO2 triplicate o quadruplicate (840-1120 ppm) rispetto ai livelli preindustriali (280 ppm). Lo scenario RCP 8.5 risulta caratterizzato dal verificarsi di un consumo intensivo di combustibili fossili e dalla mancata adozione di qualsiasi politica di mitigazione con un conseguente innalzamento della temperatura globale pari a +4-5°C rispetto ai livelli preindustriali atteso per la fine del secolo.

In uno scenario intermedio, che assume la messa in atto di alcune iniziative per controllare le emissioni, sono considerati scenari di stabilizzazione: entro il 2070 le concentrazioni di CO2 scendono al di sotto dei livelli attuali (400 ppm) e la concentrazione atmosferica si stabilizza, entro la fine del secolo, a circa il doppio dei livelli preindustriali.

In RCP6.0, le concentrazioni di CO2 continuano a crescere fino a circa il 2080, impiegano più tempo a stabilizzarsi e sono circa il 25% superiori rispetto ai valori di RCP4.5. In uno scenario di “mitigazione aggressiva”, invece, le emissioni sarebbero dimezzate entro il 2050. Assume strategie di mitigazione ‘aggressive’ per cui le emissioni di gas serra iniziano a diminuire dopo circa un decennio e si avvicinano allo zero più o meno in 60 anni a partire da oggi. Secondo l’IPCC, per quanto riguarda il particolare scenario RCP2.6, si stima che le temperature medie globali della superficie nel periodo 2081-2100, rispetto al periodo di riferimento 1986-2005, si posizioneranno, per la maggior parte dei modelli globali utilizzati nel CMIP5, in un intervallo compreso tra 0,3°C e 1,7°C.

Agricoltura settore più vulnerabile

L’agricoltura italiana, come quella di tutti i Paesi dell’area mediterranea, è una delle più vulnerabili agli effetti dei cambiamenti climatici a livello europeo. Nonostante l’adattamento al clima sia una caratteristica intrinseca del settore primario, la portata, l’incertezza e la velocità dei cambiamenti climatici in atto e attesi, rendono necessario un aumento della sua capacità adattiva, per ridurne gli impatti, ma anche per cogliere le opportunità offerte dalle mutate condizioni climatiche”, si legge nel piano. “Le riduzioni attese nelle rese sono stimate portare ad una riduzione del valore della produzione aggregata pari a 12.5 miliardi di euro nel 2050 in uno scenario compatibile con l’RCP 2.6 che potrebbero aumentare fino a 30 miliardi – si legge – Il danno, soprattutto alle produzioni pregiate, potrebbe inoltre portare ad una progressiva perdita di valore fondiario dei terreni agricoli. Le stime variano tra un deprezzamento dell’1–11% nell’RCP 4.5, al 4-16% nell’RCP 8.5 a fine secolo”.

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