Il 24 giugno, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha deciso di includere la compagnia petrolifera russa Lukoil nell’elenco delle entità sanzionate, interrompendo il flusso del petrolio greggio attraverso l’Ucraina. Questa decisione ha avuto un impatto significativo su Ungheria e Slovacchia, i due Paesi europei più dipendenti dalle importazioni di petrolio russo. I governi di Budapest e Bratislava hanno reagito con preoccupazione e critiche, esortando l’Unione Europea ad intervenire.
La reazione di Ungheria e Slovacchia
Il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjarto, ha espresso pubblicamente il suo disappunto, sottolineando che è trascorsa “più di una settimana” senza che la Commissione europea abbia preso provvedimenti. In un post su Facebook, Szijjarto ha chiesto alla presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, di spiegare “perché non ha fatto un solo passo per più di una settimana?“. La tensione tra i Paesi coinvolti si è ulteriormente intensificata, con il premier slovacco Robert Fico che ha minacciato di interrompere le esportazioni di benzina e altri prodotti petroliferi verso l’Ucraina se Kiev non ripristinerà il transito del petrolio attraverso l’oleodotto Druzhba.
In risposta alla crisi, il governo ungherese ha annunciato che manterrà il veto sui 6,6 miliardi di euro del Fondo europeo di sostegno alla pace per l’Ucraina fino a quando non verrà risolta la questione del transito del petrolio. Szijjarto ha inoltre avanzato l’ipotesi che l’inerzia di Bruxelles possa essere interpretata come un segno di debolezza o, peggio, di complicità, suggerendo che la Commissione europea potrebbe avere un interesse nel “ricattare” i due Paesi, notoriamente pacifisti e contrari alla spedizione di armi, tramite la crisi energetica.