La sindrome di Down esisteva già 273.000 anni fa: trovato fossile di Neanderthal che ne era affetto

Il fatto che una comunità preistorica sia stata in grado di prendersi cura di un individuo vulnerabile e non autosufficiente indica un senso primitivo ma efficace di coesione sociale e di responsabilità collettiva
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Nel panorama della ricerca archeologica e antropologica, ogni tanto spunta un ritrovamento che non solo ci apre una finestra sul passato, ma ci costringe a rivedere le nostre concezioni sulla vita preistorica. È il caso della recente scoperta nella grotta di Cova Negra, Spagna: un frammento di osso temporale appartenente a un bambino Neanderthal affetto da sindrome di Down. Questo reperto, datato tra i 273.000 e i 146.000 anni fa, non solo rivela la presenza di una malattia genetica in un antenato umano estinto, ma anche il fatto straordinario che questo bambino è riuscito a sopravvivere fino ai sei anni di età, testimoniando un livello di assistenza e supporto sociale che va oltre le nostre aspettative per una società così antica.

Il bambino Neanderthal affetto da Sindrome di Down

La grotta di Cova Negra, situata nelle vicinanze di Valencia, è da tempo un sito di grande interesse per gli archeologi, poiché ha restituito numerosi reperti che ci permettono di comprendere la vita quotidiana dei Neanderthal. È qui che è stato ritrovato il frammento osseo CN-46700, un pezzo del cranio appartenente a un bambino Neanderthal, ribattezzato affettuosamente Tina dagli studiosi. Questo ritrovamento è stato possibile grazie a tecniche avanzate di tomografia computerizzata, che hanno consentito di analizzare il reperto senza danneggiarlo, fornendo dettagli cruciali sulla sua anatomia e sulle condizioni mediche.

Ciò che ha reso eccezionale questo ritrovamento non è solo l’età estremamente antica del reperto, ma soprattutto la diagnosi di sindrome di Down. Le malformazioni congenite evidenti sul frammento osseo hanno portato gli scienziati a riconoscere che Tina era affetto da questa condizione genetica. È importante sottolineare che questa è la più antica testimonianza conosciuta di sindrome di Down nel genere Homo, aprendo nuove prospettive sulla storia delle malattie genetiche umane.

La sopravvivenza di Tina fino ai sei anni di età suggerisce un livello significativo di supporto sociale e di assistenza da parte della sua comunità Neanderthal. Questo dato è rivoluzionario, poiché fino a oggi l’altruismo sociale tra i Neanderthal era stato principalmente documentato tra gli adulti. Il fatto che una comunità preistorica sia stata in grado di prendersi cura di un individuo vulnerabile e non autosufficiente indica un senso primitivo ma efficace di coesione sociale e di responsabilità collettiva.

La sindrome di Down ieri e oggi

In passato, sono stati documentati casi di sindrome di Down in epoche più recenti, fino a circa 3.629 anni fa, ma nessuno di questi individui è sopravvissuto oltre i 16 mesi di vita. Quindi, la lunga sopravvivenza di Tina assume una rilevanza ancora maggiore, dimostrando che la sua comunità ha fornito un sostegno continuo e una cura adeguata per permettergli di raggiungere un’età molto superiore rispetto ai casi storici successivi.

Questo ritrovamento non è solo un importante avanzamento per la paleontologia, ma una testimonianza eloquente della nostra umanità condivisa con i Neanderthal. Attraverso il caso di Tina, possiamo riconsiderare i Neanderthal non solo come cacciatori abili, ma anche come individui capaci di empatia e di solidarietà verso i membri più deboli della loro società. Questa scoperta rafforza l’idea che la cura e l’assistenza sociale non siano prerogative esclusive delle culture moderne, ma siano radicate profondamente nella nostra storia evolutiva.

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