In una scoperta rivoluzionaria che potrebbe riscrivere la storia delle malattie infettive, un team di ricercatori ha rilevato tracce del batterio Yersinia pestis, responsabile della peste bubbonica, nel DNA di una mummia egizia risalente a 3.290 anni fa. Questo ritrovamento, considerato il primo del suo genere, sposta indietro nel tempo e nello spazio l’origine documentata della malattia, ben prima delle devastanti epidemie medievali che colpirono l’Europa nel XIV secolo.
Un enigma storico risolto
Per anni, gli studiosi hanno ipotizzato che la peste potesse aver colpito l’antico Egitto, ma mancavano prove definitive. Indizi indiretti, come il ritrovamento di pulci fossilizzate lungo le rive del Nilo e riferimenti a sintomi compatibili con la peste in testi medici egizi, avevano alimentato le speculazioni. Tuttavia, senza un’evidenza molecolare, queste teorie rimanevano nel campo delle ipotesi.
La svolta è arrivata grazie a un’analisi genetica avanzata condotta sui resti di una mummia conservata presso il Museo Egizio di Torino. I campioni prelevati dai tessuti intestinali e dalle ossa hanno rivelato la presenza inequivocabile di Y. pestis. “Questa scoperta rappresenta la prima prova diretta dell’esistenza della peste bubbonica nell’antico Egitto,” ha dichiarato il professor Ahmed El-Shazly, uno dei principali autori dello studio. “Per la prima volta, possiamo affermare con certezza che la malattia era presente nel bacino del Nilo oltre tremila anni fa.”
Il contesto storico e l’impatto della scoperta
La mummia, attribuita a una donna di circa 30 anni appartenente a un ceto sociale medio, risale al periodo del Nuovo Regno, un’epoca caratterizzata da grandi cambiamenti sociali e politici. Gli studiosi ritengono che la donna possa essere morta in seguito a uno stadio avanzato della malattia, che si manifesta con linfonodi gonfiati (i cosiddetti bubboni), febbre alta e setticemia.
La peste bubbonica, trasmessa principalmente attraverso le pulci che infestano i roditori, è nota per attaccare il sistema linfatico, causando sintomi devastanti. Senza trattamento, può uccidere fino al 90% dei pazienti. Oltre alla celebre epidemia medievale nota come “Morte Nera“, la malattia è stata identificata come causa di altre due grandi pandemie nella storia: la Peste di Giustiniano (VI secolo d.C.) e una pandemia più recente che colpì l’Asia nel XIX secolo.
Questa scoperta getta una nuova luce sulla diffusione della peste nell’antichità, suggerendo che le vie commerciali e le migrazioni umane lungo il bacino del Mediterraneo potrebbero aver facilitato la trasmissione del batterio.
Implicazioni scientifiche e future ricerche
La rilevazione di Y. pestis nel DNA della mummia apre nuove prospettive per lo studio della patologia e della diffusione della peste. Gli scienziati sperano di analizzare ulteriormente i geni associati alla virulenza del batterio per comprendere meglio i suoi meccanismi di trasmissione e la sua evoluzione nel tempo. Questo potrebbe rivelarsi cruciale per affrontare eventuali future riemergenze della malattia.
“Questa scoperta non solo amplia la nostra comprensione della storia della peste, ma ci offre anche una finestra unica sulle condizioni di salute e sulle sfide sanitarie affrontate dalle popolazioni antiche,” ha aggiunto la dottoressa Maria Rossi, genetista e coautrice dello studio.
Una storia di resilienza e sopravvivenza
Sebbene l’antico Egitto sia spesso ricordato per le sue piramidi, i faraoni e i progressi tecnologici, questa scoperta evidenzia anche le difficoltà affrontate dalle sue popolazioni. Le epidemie, come quella suggerita dalla presenza di Y. pestis, avrebbero potuto influenzare profondamente la società egizia, causando non solo perdite umane ma anche impatti economici e politici.
La scoperta presso il Museo Egizio di Torino sottolinea l’importanza della conservazione dei reperti archeologici e del loro studio con tecnologie moderne. La ricerca continua, con l’analisi di altre mummie e campioni, potrebbe fornire ulteriori dettagli su come la peste si sia diffusa e adattata nel corso dei millenni.
In un certo senso, questa scoperta non riguarda solo il passato, ma illumina anche il nostro presente e futuro, ricordandoci quanto le malattie infettive abbiano plasmato la storia umana e quanto possano ancora influenzarla.