Green deal: perché il 2025 potrebbe segnare il suo definitivo collasso

Non solo i fondi speculativi, ma anche alcuni dei maggiori asset manager al mondo, come BlackRock, Blackstone, KKR e T. Rowe Price, hanno cominciato a rivedere le proprie politiche d'investimento in relazione agli obiettivi ESG
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Il 2025 potrebbe rappresentare il punto di non ritorno per la bolla verde che da anni tiene in vita l’illusione della transizione energetica globale. Quel “green deal” tanto decantato dal celebre Accordo di Parigi, firmato nel 2015 da 194 Stati, continua a essere il pilastro su cui si fondano le politiche ecologiche mondiali. Tuttavia, nonostante la buona volontà espressa dai governi e la crescente enfasi sull’adozione di politiche verdi, i segnali di una crisi sono sempre più evidenti. Le previsioni economiche, il calo dei fondi destinati alle tecnologie rinnovabili e le scommesse sempre più audaci dei grandi fondi speculativi sul ribasso del settore, suggeriscono che quella che era stata concepita come una rivoluzione ecologica potrebbe presto trasformarsi in una bolla destinata a scoppiare.

Le scommesse contro il green deal

I segnali di allarme sono ormai evidenti. Mentre l’elenco degli Stati che finanziano il settore ecologico con incentivi fiscali e sovvenzioni cresce, l’orientamento degli hedge funds (i fondi speculativi) va in direzione opposta. Da diversi mesi, infatti, questi fondi hanno iniziato a puntare contro i settori chiave dell’economia verde, tra cui le energie rinnovabili e i veicoli elettrici. I dati parlano chiaro: l’indice Global Clean Energy, che nel 2021 aveva raggiunto un picco record, ha perso quasi il 60% del suo valore, mentre l’indice Global Oil, che monitora il mercato del petrolio, è aumentato di oltre il 50%.

A conferma di questo trend negativo, anche realtà come Impax Asset Management, una società che aveva fatto della sostenibilità e della transizione energetica il cuore del proprio business, ha visto dimezzarsi il proprio valore di mercato. Le stime parlano chiaro: secondo Bloomberg, i 215.000 miliardi di dollari necessari per azzerare le emissioni entro il 2050 sono improbabili da raccogliere. Una realtà che, per molti, rende la transizione energetica un investimento a rischio, ben lontano dalle promesse di una crescita economica verde e sostenibile.

Il cambiamento di rotta degli asset manager

Non solo i fondi speculativi, ma anche alcuni dei maggiori asset manager al mondo, come BlackRock, Blackstone, KKR e T. Rowe Price, hanno cominciato a rivedere le proprie politiche d’investimento in relazione agli obiettivi ESG (ambientali, sociali e di governance). Negli ultimi report annuali, questi colossi della finanza hanno inserito il rischio di un fallimento delle politiche verdi tra i principali fattori di preoccupazione. I fondi non appoggiano più le proposte ESG dei propri azionisti e non vendono più titoli legati alle energie rinnovabili. La convinzione che il settore verde sia destinato a non ripagarsi si sta diffondendo, mentre le scommesse sul ribasso di tecnologie come le batterie, il solare, i veicoli elettrici e l’idrogeno sono sempre più diffuse.

Le cifre parlano chiaro: nel terzo trimestre del 2024, la raccolta di capitali per fondi e ETF sostenibili è stata di soli 10,3 miliardi di dollari, una cifra ben inferiore ai 160 miliardi raccolti nel quarto trimestre del 2021. Questo declino nei flussi di investimento è accompagnato da una riduzione significativa dei nuovi prodotti finanziari legati al green, scesi da oltre 300 nel 2021 a soli 57 nel 2024. La causa di questo calo, come sottolineato da Bloomberg, è in gran parte legata alla situazione politica globale, con il crescente antagonismo nei confronti delle politiche climatiche in Paesi come gli Stati Uniti e la Cina. Nonostante gli Stati Uniti stiano intensificando la loro opposizione alle politiche verdi, la Cina, che detiene il controllo delle principali risorse per la produzione di tecnologie verdi, rimane un punto cruciale nel destino della transizione energetica.

La resistenza europea e l’utopia della neutralità climatica

Se gli Stati Uniti sembrano voltare le spalle al green deal, in Europa la spinta verso la neutralità climatica rimane forte, sebbene sempre più lontana dalla realtà. Il Piano Green Deal europeo, che mira a raggiungere zero emissioni nette di gas serra entro il 2050, è ancora una delle politiche più ambiziose dell’Unione. Tuttavia, le difficoltà nel raggiungere questo obiettivo sono diventate sempre più evidenti. Gli stessi dati economici suggeriscono che l’adozione di energie rinnovabili come l’eolico e il solare non è sufficiente a garantire un futuro senza combustibili fossili. Amin Nasser, CEO di Aramco, la più grande compagnia petrolifera al mondo, ha recentemente dichiarato che le rinnovabili non possono sostituire completamente le energie fossili. Nasser ha anche sottolineato che la transizione energetica globale è fallita, poiché le rinnovabili come il solare e l’eolico costituiscono solo il 4% della produzione energetica globale.

Le previsioni economiche degli esperti sono ancora più preoccupanti: secondo uno studio del MIT di Boston, mantenere la temperatura globale al di sotto di 1,5 gradi Celsius e raggiungere l’obiettivo di emissioni zero entro il 2050 potrebbe costare tra l’8 e il 18% del PIL mondiale entro il 2050 e tra l’11 e il 13% entro il 2100. La vera questione, però, resta la sostenibilità di queste promesse politiche. Il dibattito si infiamma ulteriormente quando si considera che il 2030 è l’anno in cui l’Unione Europea si è prefissata di ridurre le emissioni di CO2 del 55%, un obiettivo che al momento appare lontano. E mentre il 2035 è la data entro cui i veicoli a benzina saranno banditi, con l’aspettativa che tutti i veicoli siano a emissioni zero, il dubbio persiste: è davvero possibile raggiungere questi traguardi?

Un peccato originale che pesa sul green deal

Il vero peccato originale della transizione verde, come lo definiscono alcuni esperti, è che a determinare questi obiettivi non è stata l’economia, né la scienza, ma la politica. La politica, che impone scadenze irrealistiche, spinge le nazioni a prendere decisioni sulla base di obiettivi che sembrano più sogni collettivi che progetti realizzabili. È proprio questa dicotomia tra le ambizioni politiche e le capacità economiche a minare la credibilità del green deal. Se, da un lato, l’Europa resiste ancora all’utopia della neutralità climatica, dall’altro è evidente che la mancanza di un piano coerente e sostenibile rischia di far fallire l’intero progetto. Con l’adozione delle rinnovabili in forte ritardo, la spinta verso la decarbonizzazione appare sempre più come una chimera, con i fondi speculativi che, in attesa di certezze economiche, decidono di scommettere su una realtà dove i combustibili fossili restano, ancora per lungo tempo, una risorsa fondamentale.

L’anno 2025, pertanto, potrebbe segnare il punto di rottura, il momento in cui la bolla green del green deal, gonfiata da promesse irrealistiche e politiche troppo ambiziose, esploderà definitivamente. Mentre i mercati continuano a manifestare sfiducia, l’Europa, nonostante i segnali di allarme, sembra intenzionata a non rinunciare alla sua utopia. Ma con i fondi speculativi che scommettono al ribasso e gli obiettivi politici che appaiono sempre più irraggiungibili, il futuro della transizione energetica potrebbe essere tutt’altro che verde.

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