Le recenti ricerche condotte a Pompei, pubblicate su Nature Communications, hanno permesso di osservare per la prima volta un cantiere romano esattamente nel momento della sua attività. Le stanze della domus IX 10, 1, improvvisamente abbandonate durante l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., conservavano cumuli di materiali, attrezzi da costruzione e malte ancora in fase di applicazione. Questo ritrovamento ha fornito un’occasione unica per comprendere non solo la composizione dei materiali, ma l’intero processo organizzativo che regolava la produzione del celebre cemento romano. I cumuli di materiali premiscelati, gli strumenti di misurazione come fili a piombo e pesi, le tracce dei lavori sui muri e le pile di tegole e tufi mostrano un sistema edilizio complesso, calibrato e sorprendentemente moderno. Le pile di materiali raccolte nelle stanze 2 e 14, in particolare, rappresentano una sorta di laboratorio congelato nel tempo, all’interno del quale si riconoscono frammenti di calce viva mescolati a secco con pozzolana, pronti per essere attivati con l’acqua nel momento stesso dell’utilizzo.
La conferma definitiva: i Romani usavano davvero la tecnica del “hot mixing”
Per decenni gli studiosi hanno discusso sul processo esatto con cui i Romani preparavano il loro cemento. Le descrizioni di Vitruvio parlavano di calce spenta miscelata con acqua prima dell’aggiunta di materiali vulcanici, ma le analisi dei manufatti antichi mostravano caratteristiche incompatibili con questo metodo. Prove indirette facevano supporre l’uso della calce viva, ma mancava la dimostrazione archeologica diretta del procedimento.
Le indagini a Pompei hanno finalmente colmato questo vuoto. La presenza di calce viva mescolata a secco con pozzolana nei cumuli di materiali premiscelati, insieme alle firme chimiche individuate tramite FTIR, XRD ed EDS, e alle caratteristiche microstrutturali osservate nei lime clasts, mostra con assoluta chiarezza che i Romani utilizzavano un metodo basato sulla miscelazione diretta di calce viva con materiali vulcanici, attivata solo successivamente con acqua. Questo processo, noto come hot mixing, innesca una reazione esotermica capace di raggiungere temperature molto elevate. Tale calore modifica la struttura del materiale, preserva all’interno delle malte frammenti reattivi di calce e genera quelle configurazioni cristalline che gli studiosi hanno correlato alla straordinaria resilienza del cemento romano nel corso dei secoli. Le analisi isotopiche effettuate sui campioni di Pompei rafforzano questa interpretazione, distinguendo chiaramente le firme chimiche della calce viva da quelle della calce spenta.
Un materiale che si rinforza da solo: il segreto della durabilità millenaria
Le tecniche di hot mixing contribuivano a generare un cemento non soltanto resistente, ma capace di autoripararsi. I lime clasts presenti nelle malte, dotati di un nucleo ancora attivo, rilasciano calcio quando l’acqua penetra nelle microfessure. Questo calcio, entrando in contatto con i componenti vulcanici, favorisce la formazione di nuovi minerali che sigillano progressivamente le crepe. Nel tempo, il materiale non si deteriora, ma tende a riorganizzarsi, consolidarsi e trasformarsi.
Le analisi microscopiche condotte sulle malte dei muri in costruzione e su quelle dei muri già completati mostrano reaction rims attorno ai frammenti di pomice, zone in cui il materiale ha continuato a reagire per decenni e secoli. Al loro interno compaiono calcite, aragonite e fasi amorfe ricche di calcio, silicio e alluminio, elementi che testimoniano una vitalità chimica ancora in corso. L’interazione continua tra calce e pozzolana crea una sorta di sistema autoregolante, capace di contrastare fessurazioni e degrado.
Il cantiere romano: un modello di organizzazione, riciclo e precisione tecnica
Oltre alle tecniche di produzione del cemento, lo scavo di Pompei rivela una sorprendente organizzazione del lavoro. I materiali erano selezionati e stoccati in modo sistematico: le tegole in alcune stanze, i tufi in altre, le pile di materiali premiscelati nel cuore dell’atrio, i frammenti ceramici destinati al riutilizzo accuratamente impilati. Gli strumenti rinvenuti, come filo a piombo, pesi e scalpelli, indicano procedure di controllo delle proporzioni e dell’allineamento delle strutture. Nel complesso, il cantiere mostra un livello di coordinamento che contraddice l’idea, a lungo diffusa, di un’edilizia antica priva di standardizzazione.
L’integrazione di calce spenta conservata in anfore con i cumuli di calce viva e pozzolana suggerisce inoltre che i Romani modulassero la composizione delle malte in base alle necessità: più fluide e sottili per gli strati decorativi, più reattive e resistenti per le strutture portanti. I muri in fase di costruzione e le riparazioni presenti nelle diverse stanze confermano che il cantiere era nel pieno di una complessa fase di rinnovamento successiva al terremoto del 62 d.C.
Dal passato al futuro: come la tecnologia romana può rivoluzionare l’edilizia moderna
Lo studio condotto dai ricercatori del MIT non si limita a ricostruire un capitolo della storia dell’architettura, ma apre la strada a nuove tecniche costruttive ispirate al mondo antico. Il cemento è oggi responsabile di una parte significativa delle emissioni globali di CO₂ e la sua durabilità è spesso inferiore alle aspettative. Comprendere i meccanismi che rendevano il cemento romano così durevole rappresenta un’occasione preziosa per ripensare i materiali contemporanei.
La possibilità di sviluppare cementi capaci di autoripararsi, di ridurre il degrado nel tempo e di richiedere meno energia nella produzione costituisce una sfida chiave per il settore. Le ricerche guidate da Admir Masic stanno già ispirando lo sviluppo di nuovi materiali sostenibili, che reinterpretano alcune proprietà fondamentali dei cementi romani ma li adattano alle esigenze dell’edilizia moderna. Come sottolineano gli stessi autori, l’obiettivo non è imitare il passato, ma tradurlo in un linguaggio tecnologico che possa rendere le strutture future più longeve, più sicure e più rispettose dell’ambiente.
Il cantiere di Pompei fornisce la prova che la straordinaria longevità delle opere romane non è frutto del caso, ma di una sapiente combinazione di chimica, ingegneria e organizzazione del lavoro. La conferma dell’uso diffuso del hot mixing e la ricostruzione dettagliata dei processi di produzione del cemento rivelano un patrimonio tecnico che, dopo duemila anni, continua a insegnare e a sorprendere. In un’epoca in cui la sostenibilità è una priorità globale, guardare al passato può diventare il modo più efficace per costruire il futuro.





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