Accadde oggi: nel 1600 Giordano Bruno viene arso sul rogo per eresia

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Filippo Bruno, noto con il nome di Giordano Bruno, filosofo nato a Nola nel 1548, fu perseguitato dalla Chiesa, fatto arrestare dal tribunale dell’Inquisizione e condannato al rogo il 17 febbraio 1600 nella piazza di Campo dei Fiori a Roma. Bruno sosteneva una filosofia panteistica che identifica nell’infinità dell’Universo la grandezza di Dio, fu anche scrittore e frate domenicano del XVI secolo. Il suo pensiero, affine al naturalismo rinascimentale, fondeva varie tradizioni filosofiche, giungendo alla conclusione che Dio e Natura sono un’unica realtà da amare alla follia; dall’infinità di Dio si evince l’infinità del cosmo, e quindi la pluralità dei mondi, l’unità della sostanza, l’etica degli “eroici furori”. Come spiega lo stesso Bruno nel dialogo De l’infinito, universo e mondi a Filoteo: «Io dico Dio tutto Infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo attributo è uno e infinito; e dico Dio totalmente infinito, perché lui è in tutto il mondo, ed in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente: al contrario dell’infinità de l’universo, la quale è totalmente in tutto, e non in queste parti (se pur, referendosi all’infinito, possono esse chiamate parti) che noi possiamo comprendere in quello»

Ma proprio a causa di questo tipo di affermazioni e per le sue convinzioni sulla Sacra Scrittura, sulla Trinità e sul Cristianesimo, Giordano Bruno, già scomunicato, fu incarcerato, giudicato eretico e quindi condannato al rogo dall’Inquisizione della Chiesa cattolica. La sua filosofia, però, sopravvisse alla sua morte, ed è oggi ritenuto a tutti gli effetti un precursore di alcune idee della cosmologia moderna, come il multiverso. Intorno ai 15 anni Bruno rinuncia al nome di Filippo come imposto dalla regola domenicana, assumendo il nome di Giordano, in onore del Beato Giordano di Sassonia, successore di San Domenico, o forse del frate Giordano Crispo, suo insegnante di metafisica, e diventa dunque frate domenicano nel convento di San Domenico Maggiore a Napoli. Già nel 1576 la sua indipendenza di pensiero e la sua insofferenza verso l’osservanza dei dogmi si manifestano e sono evidenti anche ai suoi confratelli, tanto che un giorno, discutendo di arianesimo afferma: «Ario diceva che il Verbo non era creatore né creatura, ma medio intra il creatore e la creatura, come il verbo è mezzo intra il dicente ed il detto, e però essere detto primogenito avanti tutte le creature, non dal quale ma per il quale è stato creato ogni cosa, non al quale ma per il quale si refferisce e ritorna ogni cosa all’ultimo fine, che è il Padre, essagerandomi sopra questo. Per il che fui tolto in suspetto e processato, tra le altre cose, forsi de questo ancora».

Nel 1576, Giordano Bruno abbandona l’abito domenicano, riassumendo il nome di Filippo; lascia Roma e fugge in Liguria, poi si sposta in diverse città d’Italia, poi Francia, Inghilterra, Germania, Praga, Svizzera, e infine ritorna in Italia. Qui, la sera del 23 maggio del 1592, viene arrestato e condotto nelle carceri dell’Inquisizione di Venezia, in San Domenico a Castello. Quando nel 1592 l’inquisitore veneziano lo interrogò in merito ai suoi dubbi sul dogma della Trinità, egli ammise di aver «dubitato circa il nome di persona del Figliolo e del Spirito Santo, non intendendo queste due persone distinte dal Padre», ma ritenendo il Figlio l’intelletto e lo Spirito, e l’amore del Padre o l’anima del mondo, non come persone o sostanze distinte, ma come manifestazioni divine. Bruno, però, sa che sta rischiando la vita e si difende abilmente dalle accuse dell’Inquisizione: nega, tace se non può negare l’evidenza e mente anche su alcuni punti delicati della sua dottrina sperando, invano, che gli inquisitori non siano a conoscenza di tutto quanto egli abbia fatto e scritto. Infine chiede persino perdono per gli «errori» commessi e si dichiara disposto a ritrattare quanto si trovi in contrasto con la dottrina della Chiesa. Nonostante questo, però, il 27 febbraio 1593 Bruno è rinchiuso nelle carceri romane del Palazzo del Sant’Uffizio, dove, forse, venne torturato fino alla fine di marzo 1597,

Il 12 gennaio 1599 gli viene chiesto di abiurare otto proposizioni eretiche, nelle quali si comprendevano la sua negazione della creazione divina, dell’immortalità dell’anima, la sua concezione dell’infinità dell’universo e del movimento della Terra, dotata anche di anima, e di concepire gli astri come angeli. Ma nonostante l’abiura, e la richiesta di perdono, l’8 febbraio 1600 arriva la sentenza di condanna al rogo. Terminata la lettura della sentenza, secondo la testimonianza di Caspar Schoppe, il filosofo si alzò e rivolgendosi ai giudici disse: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam» (Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell’ascoltarla). Poco prima dell’esecuzione rifiutò perfino i conforti religiosi e il crocefisso, e così quel 17 febbraio, con la lingua serrata da una morsa perché non potesse parlare, viene condotto in piazza Campo de’ Fiori, dove viene denudato, legato a un palo e arso vivo. Le sue ceneri, infine, vennero gettate nel Tevere.

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