La grande farsa del referendum sulla durata delle concessioni entro le 12 miglia dalla costa è finita: gli italiani si sono espressi in modo molto netto con un’astensione da record (vicina al 70%) che per un referendum abrogativo significa una chiarissima presa di posizione del popolo che non ha voluto cancellare la norma in questione. Una scelta consapevole, e motivata da ragioni molto chiare e se vogliamo anche banali. Persino tra coloro che si sono recati a votare (appena il 32% degli aventi diritto, ben al di sotto del quorum del 50%+1 richiesto dalla Costituzione per la validità dei referendum abrogativi) in molti (oltre 2 milioni) hanno votato “No”. Su un totale di 50 milioni di aventi diritto al voto, ha votato “Sì” una minoranza di poco superiore ai 10 milioni, appena il 25% degli italiani.
I motivi di questo fallimento, ampiamente annunciato, sono molto semplici. La gente non è stupida e in democrazia c’è sempre una spiegazione molto banale ai comportamenti popolari. Questo referendum era del tutto inutile: ci hanno raccontato che era in gioco il futuro dell’ambiente, della nostra terra, dei nostri figli, del nostro mare. Nulla di più falso. E la gente l’ha capito benissimo sin dal primo momento. Non si votava per le trivellazioni in Italia, ne’ tanto meno per le trivellazioni in mare. E neanche per quelle entro le 12 miglia dalla costa. Tutte balle. Le trivellazioni sulla terraferma si fanno e si continueranno a fare, a prescindere dal referendum: anche in caso di vittoria dei “Sì” si sarebbe continuata a trivellare l’Italia. Idem per i mari, oltre le 12 miglia.
Invece il governo ha già legiferato l’impossibilità di fornire nuove concessioni entro le 12 miglia dalla costa: lì non trivellerà più nessuno, anche adesso che il referendum è fallito. In gioco non c’era nulla di così importante come qualcuno ha provato a farci credere: semplicemente bisognava stabilire se i (pochi) impianti già esistenti (da molti decenni) entro le 12 miglia dalla costa avrebbero potuto continuare a sfruttare i giacimenti fino al loro esaurimento oppure se avrebbero dovuto dismettere le piattaforme da qui a 5 anni. Una questione di lana caprina, se consideriamo che stiamo parlando di una percentuale molto bassa delle complessive trivellazioni su territori italiani, quasi tutte dedite all’estrazione di gas metano, e quindi una fonte di energia considerata ancora relativamente pulita rispetto alle fonti fossili (solo il 2% delle piattaforme operative entro le 12 miglia dalla costa estraggono petrolio).
Insomma, non sarebbe cambiato nulla per l’Italia, per il Mediterraneo, per il nostro mare e per i nostri figli. Non sarebbe cambiato nulla per l’ambiente. Non sarebbe cambiato nulla per l’ecosistema. Avremmo soltanto avuto, in caso di vittoria dei “Sì”, immediate e pesanti ripercussioni economiche e occupazionali, con la perdita di molti posti di lavoro e l’incremento dei costi dell’approvvigionamento energetico del Paese che avrebbe dovuto aumentare la quota di energia che acquista dall’estero per soddisfare il proprio fabbisogno. Che è il fabbisogno di ognuno di noi. A partire da coloro che per propagandare il “Sì” al referendum hanno stampato migliaia di volantini, hanno girato le città con le loro automobili che camminano grazie al petrolio, hanno organizzato cene in locali climatizzati in cui hanno degustato prelibatezze cucinate sui fornelli alimentati dal gas metano estratto delle piattaforme di Ravenna (guarda caso una delle città con l’affluenza più bassa), riempiendoci di balle sul rischio ambientale per attività già operative da 40, in alcuni casi 50 anni senza mai neanche un problema in territorio italiano grazie ai ferrei controlli ministeriali e istituzionali.
Insomma, era una questione ideologica: gli storici “no Ponte”, “no TAV”, “no MUOS” e via dicendo, stavolta si sono radunati dietro la bandiera ambientalista del “no triv” determinando una certa moda negli ambienti chic del Paese, dagli artisti che hanno fatto lo spot a numerosi intellettuali che – come mai era accaduto prima in precedenti elezioni politiche, amministrative, europee o regionali – hanno provato a demonizzare il sacrosanto diritto dell’astensione proprio nell’unico tipo di elezione in cui l’astensione è prevista dalla Costituzione non – appunto – come semplice diritto, ma come vero e proprio strumento per esprimere il proprio parere entrando nel merito della questione. Per far fallire il referendum. Non un semplice “No”, ma ancora con più convinzione un voler prendere le distanze da una farsa che ha fatto spendere un sacco di soldi allo Stato, quindi ad ognuno di noi. Una farsa che è stata voluta da 9 Regioni e neanche in queste la gente è andata a votare. Anzi. Il record di astensione è stato proprio in Calabria e Campania, due tra le Regioni promotrici: il 74% degli elettori è rimasto a casa. A nome di chi, quindi, gli amministratori locali si arrogano il diritto addirittura di indire un referendum, senza neanche il minimo supporto della loro gente, del loro popolo?
Dopotutto il fronte politico del “Sì” era molto eterogeneo, ma altrettanto demagogico: da Grillo a Salvini, da Vendola a Gasparri. Chi per fare un’improbabile “spallata” (da cui esce con le ossa rotte), chi per cavalcare l’ultima moda populista, chi per antiquate convinzioni ideologiche. E quando Renzi e Napolitano hanno espresso la loro scelta, quella di non andare a votare, in tanti hanno ottusamente deciso di recarsi alle urne per il semplice fatto che “Se Renzi e Napolitano dicono di no, io ci vado apposta“. Un modo brillante per delineare le future politiche energetiche del Paese in cui viviamo. Dopotutto il problema di Renzi e Napolitano non è stato quello di esprimere il loro parere: se avessero detto che sarebbero andati a votare “Sì”, la loro espressione di voto non avrebbe dato fastidio anzi probabilmente sarebbero stati osannati da chi invece oggi sta coprendo di epiteti ingiuriosi e offensivi tutti coloro che non si sono recati alle urne. E’ la democrazia dei social network, delle minoranze rumorose, della totale assenza del rispetto dell’opinione altrui e della riflessione un minimo profonda.
Ma la balla più grande è stata quella ambientalista. Legambiente, Greenpeace, Wwf ci hanno detto che avremmo dovuto votare “Sì” per indicare una chiara linea al governo su un futuro fatto di energie rinnovabili. Adesso che il referendum è fallito e che il quorum non è stato neanche avvicinato, nei comunicati stampa diffusi subito dopo il voto da queste associazioni si legge che “l’Italia deve cambiare le proprie politiche energetiche perchè dalle urne emerge una richiesta fortissima di questo tipo, milioni di italiani vogliono un futuro rinnovabile“. Ma quindi che senso aveva andare a votare “Sì”, se per indicare una chiara linea al governo su un futuro fatto di energie rinnovabili basta anche questo 32% di affluenza? E, soprattutto, per quale motivo l’Italia deve cambiare le proprie politiche energetiche, se è già prima nel mondo per utilizzo e produzione delle fonti rinnovabili?
Durante la notte, a Palzzo Chigi nella conferenza stampa post-voto, il premier Renzi ha detto che vorrà fare dell’Italia il Paese più green d’Europa e già nei mesi scorsi il suo governo ha preso l’impegno formale con l’UE di arrivare al 50% di energie rinnovabili entro il 2018. Ma l’Italia è già oggi il Paese più green d’Europa: produce il 43% della propria energia elettrica da fonti rinnovabili (nessuno così nel nostro Continente) e addirittura l’8% del fabbisogno viene soddisfatto grazie al fotovoltaico (nessuno così nel mondo intero!). Quella delle energie rinnovabili per l’Italia non è solo una prospettiva green, ma una realtà già esistente, non solo sostenibile per l’ambiente ma anche di sviluppo per tutta la filiera: dalla tecnologia all’occupazione, è uno dei settori in più grande crescita nel Paese. Perché bisogna cambiare questo percorso pulito e sano?
Ovviamente siamo ancora legati, per forza di cose, agli ultimi scampoli di energie fossili e tradizionali: altrimenti saremmo costretti a ridimensionare le nostre comodità, a non usare i computer tanto quanto facciamo, a non ricaricare le batterie dei nostri smartphone, a non tenere accese le televisioni, a non andare in giro con le automobili o con i mezzi pubblici che non siano elettrici, a non cucinare sui fornelli a gas o induzione e persino a farci la doccia sempre con l’acqua fredda. Il percorso è tracciato e nel giro di qualche decennio potremo sfruttare tutta l’energia che ci serve esclusivamente da fonti rinnovabili, e per fortuna il nostro Paese è già leader del settore, modello per il mondo intero e ben avviato in questa direzione.
Non si capisce per quale motivo, quindi, alcune decine di piattaforme operanti da decenni entro le 12 miglia dalle coste italiane non possano sfruttare fino all’esaurimento il giacimento da cui ci consentono tutte le comodità di cui sopra, gettando al vento senza motivo migliaia di posti di lavoro, tanti soldi per la dismissione prematura delle strutture e tutte le tecnologie e l’indotto legati a queste attività. Sarebbe stato un gesto suicida e ingiustificato.
Il nostro mare lo amiamo tutti, ma per difenderlo e tutelarlo non serviva andare a votare “Sì” ad un referendum farsa che non avrebbe in ogni caso cambiato nulla dal punto di vista ambientale, ma soltanto provocato (in caso di vittoria) pesanti ripercussioni negative sull’economia.
Basterebbe prestare più attenzioni quotidiane perchè non ha senso riempirsi la bocca di tante belle parole quando va di moda per poi continuare a buttare le cicche di sigaretta a terra, ignorare gli scarichi fognari a mare, il malfunzionamento dei depuratori e tante altre piccole-grandi cause di inquinamento che tutto sono tranne che “trivelle”.
Adesso che la farsa è finita, riusciremo ognuno di noi nel nostro piccolo con i semplici gesti quotidiani a rendere migliore il mondo in cui viviamo? Non sarebbe poco.
Basterebbe questo per fare al nostro Pianeta il più grande regalo possibile.