L’università italiana è maturata ottenendo uno standard comune e più elevato della qualità della ricerca. In media, gli atenei che avevano un livello della qualità della ricerca relativamente basso si sono rimboccati le maniche e, se non hanno scalato posizioni, almeno hanno ridotto lo svantaggio. Questa è l’indicazione che emerge dai primi risultati della seconda Valutazione della Qualità della Ricerca (Vqr) realizzata dall’Anvur (l’Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca) che ha analizzato la produzione scientifica delle università italiane tra gli anni 2011-2014. I risultati della Vqr saranno utilizzati per ripartire tra le università (statali e non statali) la parte premiale del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) per il 2016. Si tratta di un lavoro durato 18 mesi in cui 450 super esperti, coadiuvati da 14.000 professori e ricercatori, hanno valutato oltre 118.000 lavori realizzati da circa 65.000 tra professori e ricercatori, impiegati in 132 strutture tra università, enti di ricerca e consorzi interuniversitari.
In testa alla classifica della qualità della ricerca degli atenei statali si conferma la Scuola di Alti Studi di Lucca (Imt) che però, rispetto all’ultima valutazione, ha perso il 46%, seguita dalla Scuola Superiori di Pisa Sant’Anna (-7%) e dalla Normale (+20%). Subito fuori dal podio la Sissa di Trieste (-6%), quinto l’Istituto universitario di studi superiori di Pavia (-26%). “Si vede con chiarezza che l’esistenza stessa della VQR, quindi il sapere a priori che il lavoro di ricerca sarà valutato, ha orientato l’azione delle università: rispetto alla prima VQR, conclusa nel 2013 che considerava i lavori scientifici realizzati nel periodo 2004-2010, c’è una convergenza”, ha dichiarato Andrea Graziosi, presidente Anvur. “La prima Valutazione aveva fotografato la ricerca universitaria dopo un periodo di oltre vent’anni senza un sistema di valutazione comune, con il risultato che ogni ateneo aveva seguito regole proprie e il sistema si era mosso in ordine sparso, con profonde differenze”, ha aggiunto Graziosi. “Oggi, invece, vediamo che le differenze tra atenei si riducono e tutto ci fa pensare che la qualità media del lavoro delle università si sia innalzata. Si può, dunque, ipotizzare che gli esercizi di valutazione abbiano raggiunto uno degli obiettivi che si erano prefissati: favorire una convergenza verso uno standard comune e più elevato della qualità della ricerca. Certamente, si tratta solo di un primo passo in un percorso lungo e complesso ma, per semplificare, possiamo dire che la macchina è stata messa in moto, come dimostra anche il miglioramento nella qualità del reclutamento della docenza”, ha sottolineato. Dall’indagine emerge che gli atenei delle isole e del sud, che nella precedente VQR mostravano un forte distacco rispetto alle università settentrionali, in questi anni hanno fortemente ridotto il gap. In particolare le università di Cagliari (+4%), Palermo (+9%), Catania (10%) e Messina (17%), sono quelle che hanno fatto registrare i maggiori progressi. Per questo motivo, il dato in termini assoluti appare ancora negativo rispetto alla media, ma l’elemento su cui focalizzare l’attenzione è il miglioramento qualitativo che gli atenei meridionali sono stati capaci di realizzare, avvicinandosi ai primi