“Una medaglia che ti resta appiccicata per la vita”. Gli Erc grant – assegnati nell’ambito del programma di finanziamento dell’European Research Council, nato esattamente 10 anni fa per sostenere i progetti di ricerca più innovativi d’Europa – per uno scienziato sono più di un assegno milionario da giocarsi nell’arco di 5 anni. Sono “indipendenza e prestigio, un trampolino di lancio per i propri studi e la carriera. E per l’Europa è un modo intelligente di cogliere l’eccellenza tra tante persone“. Lo sa bene Luca Guidotti, 55 anni, vice direttore scientifico dell’ospedale San Raffaele di Milano, super scienziato italiano che da premiato (nel 2010) è poi diventato ‘giurato’ Erc. Oggi si racconta all’AdnKronos Salute. Dopo oltre 20 anni negli States allo Scripps Research Institute di La Jolla in California, il patologo sperimentale è tornato in Italia creando al San Raffaele un piccolo e creativo ‘impero’ della ricerca hi-tech.
E la svolta che l’ha spinto a lasciare gli Usa per Milano è stata proprio la vittoria di un Erc Advanced grant da 2,5 milioni di euro. La benzina che ha acceso il motore del suo ritorno definitivo. Una vita dedicata allo studio delle epatiti virali (B, in particolare) la sua. Le ricerche a cui ha lavorato, finanziate soprattutto dai National Institutes of Health (Nih) americani e dall’Erc, e pubblicate su prestigiose riviste scientifiche internazionali, sono servite allo sviluppo di diversi farmaci antivirali ad oggi in commercio. L’approdo di Guidotti al San Raffaele ha attirato talenti come quello del giovane immunologo Matteo Iannacone, suo allievo e ‘golden boy’ della microscopia intravitale, a sua volta vincitore di 2 grant Erc, prima uno Starting e poi un Consolidator grant proprio quest’anno. Anno proficuo in cui è stata premiata anche la neurologa Federica Agosta, impegnata a studiare l’evoluzione delle malattie neurodegenerative come Sla e demenze fronto-temporali con sofisticate tecniche di imaging. In 10 anni l’ospedale di via Olgettina e l’università Vita-Salute San Raffaele di grant Erc ne hanno avuti 11.
“Alcuni scienziati, incluso me, sono partiti da fuori e arrivati qui”, riferisce Guidotti. Altri hanno concepito il loro progetto in questi laboratori vincendo il grant da interni. Due dei cervelli premiati nel tempo sono migrati verso altri istituti. “E’ il bello della ricerca”, dice Guidotti. Gli scienziati vanno dove li portano i loro studi. “Un’innovazione dei finanziamenti Erc, molto apprezzata dai ricercatori che per definizione non hanno confini né radici, è la portabilità. I soldi che vinci ti seguono. Purché la meta sia nei confini europei: è l’unico ‘comandamento'”. Se al San Raffaele 4 sono stati premiati intorno ai 50 anni da scienziati già affermati, il grosso dei vincitori è rappresentato dai giovani. Guidotti ha una visione a 360 gradi del programma di finanziamento europeo, lo ha vissuto da entrambe le ‘barricate’. Il programma è diviso in settori, quello dedicato alle Scienze della vita è diviso a sua volta in 9 pannelli. In uno di questi – Immunologia e malattie infettive – il vice direttore scientifico del San Raffaele fa parte del pool di una quindicina di scienziati che si occupa della revisione dei progetti candidati. Un lungo processo in 2 tappe (a Bruxelles) “finalizzate a screenare all’interno di tutte le proposte il ‘top 10%’. Un compito difficile perché il programma è molto competitivo, nella categoria Advanced si possono incontrare i nomi di quasi tutti i premi Nobel europei“.
Ogni revisore entra in gioco un anno sì e uno no per 4 volte consecutive e in 8 anni ha esaurito il suo compito. Il nome dei giurati resta anonimo “fino a quando non vengono resi noti i vincitori”. E’ una macchina “costosa, ma che porta grande valore alla ricerca Ue”. Unico criterio di selezione: l’eccellenza scientifica. “Non contano la provenienza, il sesso, il reddito, il credo religioso. L’Erc ci tiene all’equità di genere e sul fronte dei revisori cerca di avere uomini e donne al 50%, e di rappresentare più Paesi”, spiega l’esperto. Diverso il discorso per i candidati. “Ogni anno ci si riunisce a Bruxelles con il Consiglio e con il presidente dell’Erc, Jean-Pierre Bourguignon, per fare il punto su come sta andando il programma. Un dato emerso è che proprio nelle Scienze della vita ancora oggi la percentuale di donne che vince un grant è solo del 30%. Ma il gap è alla partenza: arrivano poche ‘application’ dai camici rosa, ed è questo che dovrebbe cambiare”. Alla base del programma “la difesa del merito, qualcosa di non ‘politically correct’ – osserva Guidotti – E proprio per questo l’Erc fa molta fatica a mantenere il suo budget. Conta solo quanto è buono il progetto, che deve essere coraggioso e innovativo, con un occhio certo alla credibilità e alla potenzialità di realizzazione. Arrivano così proposte che lasciano a bocca aperta – garantisce – Ci sono progetti che accoppiano tecnologie all’avanguardia allo studio di vari aspetti della medicina, che propongono di studiare cellule nello spazio, robotizzare un intero processo produzione farmaci in condizione di assenza di gravità”.
Viene lasciato ampio respiro allo scienziato che per realizzare il suo sogno di ricerca deve poter contare su un ambiente altrettanto competitivo. “Il centro che accoglie deve essere preparato a soddisfare esigenze particolari. Non a caso i grossi ‘incubatori’ di Erc sono Oxford, Cambridge, i Max Planck Institutes. Nel panorama italiano il San Raffaele”, per esempio. “Due condizioni fondamentali sono la capacità di fare massa critica e di sostenere i costi dell’impatto tecnologico. Costi sopportabili solo da grandi strutture. Non è facile, ma ho potuto sperimentare sul campo che vincere un Erc avvia un circolo virtuoso per cui, a catena, attrai molti altri finanziamenti“. Ogni anno l’Italia “ottiene buoni risultati” con gli Erc che ricevono il 10% del budget europeo per tutti i programmi di innovazione e ricerca, “fondi che arrivano da contributi degli Stati membri. Per il Belpaese il saldo fra fondi versati e ricevuti è ancora negativo. Ci arriva meno rispetto a Paesi come la Germania. C’è il noto problema che, dei tanti scienziati tricolore premiati, pochi realizzano il progetto in Italia e la cosa mi rattrista. In parte è dovuto alla scarsa attenzione del Paese a creare grandi centri di eccellenza. Come creatività non siamo secondi a nessuno e lo dico da emigrato all’estero, che ha lavorato in un istituto privato in cui gli americano erano meno del 10%. Gli italiani fanno carriere fantastiche. Abituati a fare gli inventori con poco, quando ci viene dato tanto esplodiamo”.
Qui, continua Guidotti, “mancano sì gli investimenti in ricerca, ma anche la volontà di seguire una filosofia orientata al merito a prescindere da tutto. Diventa poi difficile concentrare le attività scientifiche in pochi centri, come succede in Inghilterra, dove quelle realtà fanno metà dei brevetti europei al mondo. Gli scienziati sono abituati a vivere con la valigia, ma ci deve essere il consenso politico a costruire grandi centri che escano dalle politiche territoriali ed è molto difficile in un Paese in cui non c’è coordinamento. Lo Human Technopole è un tentativo in questo senso, per costruire qualcosa di più grande”. La riflessione di Guidotti poggia anche sulla sua positiva esperienza personale, che lo ha portato a capire quanto fosse importante la massa critica. “Per inventarci la microscopia intravitale abbiamo avuto bisogno di fisici, ingegneri, chimici. Lo sguardo va puntato sempre più avanti se si vuole mantenere un ‘monopolio intellettuale’. Per realizzare i miei progetti di ricerca hi-tech sono andato persino dai registi di Hollywood per capire se la loro tecnologia 3D poteva essere d’aiuto ai nostri obiettivi“.
Essere scienziato, riflette, “è come fare il cuoco. Non basta accontentarsi degli ingredienti che ci sono in cucina. Bisogna avere idee precise, uscire e fare la spesa, cucinare in base a quello che ancora non c’è. E’ così che siamo approdati a una tecnica di imaging con una risoluzione altissima, di pochi nanometri”. “Ci siamo creati un’avanguardia, con modellistiche uniche al mondo per la ricerca in epatite B“, assicura. Topolini geneticamente modificati per replicare un virus che infetta solo l’uomo e lo scimpanzé e non le cellule in coltura. “I modelli murini hanno cambiato lo scenario e di colpo a metà anni Novanta abbiamo trovato un sistema per testare farmaci, che ha permesso di salvare milioni di vite. Quei topolini li abbiamo fatti noi a San Diego. E l’Erc originario è stato vinto perché su questi modelli volevamo studiare la malattia con una tecnica altamente innovativa – la microscopia intravitale – per capire in tempo reale come avveniva. Avevo i modelli e la tecnologia”. E 2 milioni e mezzo per realizzare un sogno.