Immunoterapia: un algoritmo italiano dirà su chi funziona

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L’immunoterapia è una delle frontiere più affascinanti nella lotta contro il cancro. Un approccio che si è guadagnato l’ultimo premio Nobel per la Medicina, ma che non funziona su tutti i malati. Su alcuni si rischierebbero più rischi che benefici. Come capire quando usarla? Uno studio italiano, pubblicato su ‘Cancers’ da un team dell’Istituto nazionale tumori (Int) di Milano, dimostra “le potenzialità di un algoritmo messo a punto ad hoc nella selezione dei pazienti maggiormente responsivi all’immunoterapia”. La novità “potrebbe rappresentare un passo in avanti verso una medicina sempre più personalizzata e su misura in base al singolo paziente”, sottolineano dall’Int.

Il trattamento con inibitori del checkpoint immunologico (anti Pd-1, anti Pdl-1 e anti Ctla4) ha consentito un significativo miglioramento della prognosi in pazienti con diverse neoplasie solide, ricordano gli esperti della Fondazione Irccs del capoluogo lombardo. Purtroppo, però, solo il 20-30% risponde a questi trattamenti e ad oggi non esiste un metodo di analisi univoco che permetta di selezionare i pazienti.

“L’idea che ha guidato il disegno di questo studio – riferisce Massimo Di Nicola, responsabile dell’Unità Int di immunoterapia clinica e terapie innovative – è quella di venire incontro all’esigenza clinica di poter disporre di criteri semplici, basati su variabili clinico-laboratoristiche di uso comune e facilmente reperibili, che possano aiutare il medico a selezionare al meglio i pazienti potenzialmente responsivi già prima di iniziare il trattamento immunoterapico”.
“Conoscere le probabilità di risposta al trattamento – precisa infatti Di Nicola – consente di perseguire l’intento di una medicina personalizzata, evitando trattamenti inefficaci ed inutili effetti collaterali”. Perché il problema, evidenziano gli specialisti, è che “durante un trattamento con l’immunoterapia non sono rari gli effetti collaterali specifici, e anche potenzialmente fatali, causati da una iperattivazione del sistema immunitario contro cellule di organi sani”. E “il rischio è accettabile solo in caso di risposta clinica”.

Nello studio – riporta una nota – sono stati raccolti retrospettivamente i dati di 271 pazienti con vari tipi di tumore metastatico, trattati dal 2013 al 2017 all’Int con anticorpi monoclonali anti Pdl-1 e anti Pd-1. Sono state esaminate diverse variabili tecniche, e le analisi statistiche effettuate hanno confermato la capacità predittiva di risposta alla terapia dell’enzima lattato-deidrogenasi (Ldh), che risulta incrementata se integrata con i dati relativi al performance status (Ps) e all’età del paziente.

“Abbiamo trasferito i risultati ottenuti dal modello statistico in uno strumento interattivo e intuitivo – spiega Paolo Verderio, a capo della Struttura di bioinformatica e biostatistica dell’Int – Inserendo il valore sierico di Ldh basale, il Ps definito secondo lo score Ecog e l’età, è possibile ottenere una stima della probabilità di risposta clinica al trattamento”. In altre parole, l’équipe meneghina ha sviluppato un algoritmo quale “strumento facilmente utilizzabile nella pratica clinica di tutti i giorni – si legge – perché basato su pochi parametri comunemente disponibili, che possono essere raccolti velocemente e contestualmente alla visita medica”.

“La nostra analisi – commenta Di Nicola – conferma che i pazienti con livelli sierici elevati di Ldh basale, giovani e con un basso Ps hanno minori probabilità di ottenere una risposta clinica al trattamento con modulatori del checkpoint immunologico. Certamente i nostri risultati sono molto promettenti, ma è necessaria una validazione dell’algoritmo con studi prospettici e su una popolazione più ampia e omogenea, con in più un’integrazione relativa ai dati molecolari del tumore e del microambiente tumorale”.

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