“Fino a poco tempo fa si riteneva un buon risultato ottenere una diagnosi di artrite reumatoide nel giro di un anno. Poi questa finestra di tempo si è progressivamente ridotta e oggi la media è di 6 mesi, ma puntiamo ad arrivare a 3, anche grazie alla collaborazione dei medici di famiglia”.
A tracciare il quadro con l’Adnkronos SALUTE è Ennio Favalli, reumatologo del Cto Gaetano Pini di Milano, a margine del congresso europeo di Reumatologia (Eular) in corso a Madrid.
Fra i temi più affrontati all’incontro scientifico in Spagna, quello della remissione della malattia, “un aspetto verso cui sempre di più puntiamo non solo attraverso diagnosi precoce e terapie innovative e mirate – spiega Favalli – ma anche grazie all’aiuto dell’autovalutazione del paziente. Anche se clinicamente possiamo dire di aver raggiunto la remissione misurata attraverso parametri specifici, infatti, a volte i pazienti riferiscono di avere ancora dolore, fatigue o altri sintomi. E per questo diamo sempre più spazio alla percezione del paziente, affrontando anche gli aspetti psicologici della sua malattia. La depressione è sempre dietro l’angolo in questi malati e peraltro c’è un meccanismo patogenetico legato all’infiammazione anche in questo disturbo psichico”.
Per giungere a una diagnosi sempre più precoce, apripista per una corretta gestione dell’artrite reumatoide, “stiamo lavorando anche organizzando corsi per medici di medicina generale – dice Favalli – con due obiettivi: far comprendere quali sono le ‘red flag’ per identificare la malattia, e aiutarci a gestire al meglio la terapia farmacologica. I medici che seguono i corsi poi entrano a fare parte della nostra rete e ottengono una corsia preferenziale per la prima visita di pazienti che ritengono possano essere affetti da artrite: nel giro di 14 giorni li visitiamo”.
“Applicando le terapie nel modo corretto – specifica l’esperto – il 60-70% dei pazienti può raggiungere la remissione con la prima linea di trattamento. Mantenerla non è la stessa cosa, perché spesso subentrano problemi di tolleranza e diventa necessaria una terapia di seconda linea. Quando la remissione si mantiene per un po’ di tempo si cominciano a ridurre il dosaggio e/o la frequenza del trattamento. Purtroppo ancora oggi una remissione ‘drug free’ cioè che consenta di smettere di assumere farmaci, personalmente la considero una chimera. Ma oggi abbiamo gli strumenti per gestire tutto, anche le pazienti donne in età fertile e desiderose di un figlio, alle quali una volta veniva sconsigliata la gravidanza”.
Al congresso Eular i riflettori sono puntati soprattutto sui farmaci “anti-Jak, che si stanno dimostrando sicuri ed efficaci sulle artriti – prosegue Favalli – e sono allo studio anche in altre patologie”. “I nuovi inibitori Jak-1 come l’upadacitinib – sottolinea Elisa Gremese, direttore Reumatologia del policlinico Gemelli Irccs di Roma – hanno mostrato efficacia anche in popolazioni di pazienti ‘difficili’, come quelli che non hanno risposto anche a due precedenti trattamenti, attraverso una modalità di somministrazione più comoda per il paziente, quella orale, che è spesso ben vista rispetto a quella parenterale o di iniezione sottocute di molte terapie biologiche. Il nostro obiettivo più ambizioso e stringente è oggi la remissione, e i dati suggeriscono l’efficacia e la sicurezza di questa nuova soluzione terapeutica”.