Gli incendi che stanno bruciando in parti dell’Australia sudorientale da settembre sono sulle prime pagine di tutti i giornali. I roghi stanno mostrando minimi segni di attenuazione, tanto che gli stati del Nuovo Galles del Sud e di Victoria hanno dichiarato lo stato di emergenza la scorsa settimana, perché le condizioni meteorologiche potrebbero determinare un pericolo incendi maggiore. Ma a questa difficile situazione potrebbe esserci una soluzione risalente a circa 50.000 anni fa. La storia degli incendi in Australia, infatti, ha radici molto profonde, che risalgono alle popolazioni indigene.
Per migliaia di anni, gli indigeni australiani hanno dato fuoco alla terra. Gli indigeni avevano una profonda conoscenza della terra, sostiene lo storico Bill Gammage, professore emerito della Australian National University che studia la storia australiana e aborigena. Molto prima che l’Australia fosse invasa e colonizzata dagli europei, venivano impiegate tecniche di gestione degli incendi (chiamate “cultural burns”). Gli indigeni conoscevano l’erba e sapevano se avrebbe bruciato bene; sapevano quali tipi di incendi innescare a seconda del tipo di terra, quanto farli bruciare e con quale frequenza. Gli incendi, alti fino alle ginocchia e a basse temperature, erano pensati per verificarsi in maniera continuata nel paesaggio. “Hanno conoscenze come queste, ma noi no”, aggiunge Gammage.
Le tecniche aborigene erano basate in parte sulla prevenzione degli incendi: liberare la terra dal combustibile, come detriti, boscaglia e alcuni tipi di erbe. Gli incendi consumavano detriti di foglie e ramoscelli, che significava che un incendio naturale avrebbe avuto meno materiale da divorare. Questi incendi di bassa intensità avrebbero ridotto anche l’impatto sugli insetti e sugli animali che occupavano la terra, proteggendo anche gli alberi e lo strato superiore delle foreste. Questi incendi avrebbero creato estese praterie su terreni buoni che a loro volta avrebbero incoraggiato l’arrivo di canguri, che poi sarebbero stati cacciati per ottenere cibo. Il risultato era un mosaico di alberi e praterie che significavano che le foreste di eucalipto, altamente infiammabili, non avrebbero potuto generare incendi intensi. Questi roghi, inoltre, si spegnevano da soli.
Per oltre 50.000 anni, la comunità indigena australiana si è presa cura del suo Paese utilizzano una gestione della terra che funzionava con l’ambiente. Utilizzando gli incendi e seminando e conservando le piante, erano in grado di creare un sistema che fosse sostenibile e che li rifornisse del cibo di cui avevano bisogno. Ma quando arrivarono gli europei, portarono pratiche agricole che non erano adatte ad un ambiente molto diverso come quello australiano e che nel lungo termine causarono erosione e salinità. Gli incendi, così, divennero temuti invece che sfruttati come strumento per gestire la boscaglia. Il risultato fu che le pianure erbose lasciarono spazio ad una fitta boscaglia, più incline agli incendi di forte intensità.
In Australia, gli incendi troppo intensi, infatti, permettono alla boscaglia di germogliare di più. Quando i primi colonizzatori europei cercarono di copiare le tecniche aborigene innescando incendi, crearono fuochi molto intensi e ottennero ancora più macchia infiammabile. “Anche se le persone possono vedere gli indigeni controllare il fuoco e possono vederne i benefici, non possono copiarli. Dove sono al comando gli aborigeni, non ci sono grandi incendi. Nel sud, dove è al comando gente bianca, stiamo avendo dei problemi ”, ha spiegato Gammage.
Da quando è iniziata la crisi degli incendi lo scorso settembre, si sono fatte sempre più sentire le voci che invocano la reintegrazione di queste tecniche. Ma avrebbe dovuto accadere prima, sostiene Shannon Foster, esperta di conoscenze aborigene, trasmesse dai suoi antenati, della University of Technology Sydney.
“Il “bush” deve bruciare. È il concetto di preservare il Paese, centrale in qualsiasi cosa facciamo come popolazioni indigene. La terra è la nostra madre. Ci mantiene in vita”, afferma Foster. Anche se le autorità al giorno d’oggi eseguono le pratiche per la riduzione del pericolo incendi, concentrandosi sulla protezione delle vite e delle proprietà, Foster sostiene che “chiaramente non stanno funzionando”: “Gli attuali incendi controllati distruggono tutto. È un modo sprovveduto di praticare la gestione degli incendi e non ascolta gli indigeni, che conoscono meglio la terra. Mentre il cultural burning protegge l’ambiente in maniera olistica. Noi siamo interessati a prenderci cura del Paese, oltre la proprietà e i beni. Non possiamo mangiare, bere o respirare i beni. Senza il Paese, non abbiamo nulla. Il “cool burning” ripristina la terra e aumenta la biodiversità: la cenere fertilizza e il potassio incoraggia la fioritura. È un ciclo complesso basato su conoscenze culturali, spirituali e scientifiche”.
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Queste pratiche, inoltre, creano anche micro-climi benefici. “Incoraggiano la pioggia: scaldano l’ambiente fino ad un particolare livello atmosferico e quando il caldo incontra il freddo, si verifica la condensazione, la pioggia, che aiuta a mitigare gli incendi”, spiega Foster.
Gli incendi in Australia non spariranno mai, sono inevitabili e i cambiamenti climatici potranno solo peggiorare le condizioni per il loro sviluppo. Se gli incendi, innescati in maniera naturale o dall’uomo, si sviluppano in maniera estesa, è difficile affrontarli. Le tecniche indigene possono aiutare: le aree in cui sono state applicate tali tecniche portano incendi meno intensi, ma il problema è che in condizioni peggiori, il fuoco è comunque in grado di bruciare nella terra, nonostante le misure di prevenzione. Quello che gli australiani devono imparare dagli indigeni è la custodia della loro terra, il modo in cui conoscono e si prendono cura di essa. Shannon Foster è disponibile a collaborare con le agenzie governative, ma è preoccupata: “Sono terrorizzata dal fatto che sia stata decimata così tanta terra. Le popolazioni aborigene si sono prese cura di questo posto per così tanto tempo: ora vederlo distrutto perché nessuno ci ha permesso di occuparcene è devastante”.