Se in tutto il mondo migliaia di persone con il Coronavirus sopravvivono ed escono dalla terapia intensiva lo devono anche a Luciano Gattinoni, professore emerito all’università Statale di Milano e per anni primario al Policlinico di Milano: sua l’intuizione di girare a pancia in giù i pazienti intubati con gravi insufficienze respiratorie, una tecnica che permette una migliore ossigenazione dei polmoni e quindi un maggior tasso di sopravvivenza.
“E pensare che all’inizio ridevano tutti di quella manovra“, racconta in un’intervista al “Corriere della Sera” il rianimatore, oggi guest professor a Gottinga in Germania. “La medicina, si sa, è molto conservatrice. Nei primi tempi si riteneva che alcune gravi insufficienze respiratorie, che noi chiamavamo Ards (sindrome da distress respiratorio acuto), interessassero tutto il polmone. Fummo i primi a fare le Tac polmonari, vedendo invece che la parte superiore del polmone era piena d’aria, mentre la parte compromessa era quella più vicina alla colonna vertebrale. Immagini un tondo metà chiuso e metà aperto“.
“Avevamo pensato che, mettendo il paziente a pancia in giù, il sangue sarebbe andato nella parte aperta e ci sarebbe stata una ossigenazione migliore. E questo in effetti succedeva. Poi, rifacendo la Tac, capimmo che il miglioramento non era tanto dovuto all’ossigenazione, quanto al fatto che in posizione prona le forze si distribuiscono nel polmone in modo più omogeneo. Pensi a un polmone sottoposto all’energia meccanica del respiratore. E’ come se gli venissero dati continui calci: tam, tam, tam. Ovviamente, più questa forza viene distribuita omogeneamente, meno danni fa. Adesso questa tecnica è entrata nel bagaglio delle conoscenze ed è usata in tutto il mondo“.
E per quanto riguarda i pazienti affetti da COVID-19? “Metterli proni risponde in realtà un po’ al meccanismo che pensavamo all’inizio, cioè portare l’ossigenazione nelle parti più basse del polmone – spiega Gattinoni – Certo, ora girare così tanti pazienti sta diventando uno stress notevole per il personale“.
Pensando alla situazione delle rianimazioni, lo specialista confessa “un profondissimo disagio. In terapia intensiva non guariamo nessuno, compriamo solo il tempo per l’organismo per organizzare le difese. Dobbiamo tenere il paziente vivo, assicurare uno scambio gassoso al minor prezzo possibile, cioè evitare i danni che sono sempre associati alla ventilazione meccanica. Ma questa è una malattia lunga“.