Coronavirus, il primario della rianimazione di Bergamo: “La situazione migliora ma il futuro è ignoto”

La situazione dell'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo continua a migliorare, di giorno in giorno, rispetto a qualche settimana fa, ma Luca Lorini, primario del reparto di Rianimazione e Terapia intensiva, usa prudenza
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La situazione dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo continua a migliorare, di giorno in giorno, rispetto a qualche settimana fa, ma Luca Lorini, primario del reparto di Rianimazione e Terapia intensiva, usa prudenza. “Noi il futuro non lo conosciamo, questo è importante che lo capiscano tutti. Conosciamo molto bene il passato e il presente e possiamo dire che oggi è molto meglio di tre settimane fa. Se sia passato il peggio lo dobbiamo vedere dopo la riapertura e dopo i test sierologici”, spiega in un’intervista all’Adnkronos.

A Bergamo, la città che è arrivata vicina ai 10.800 contagiati e che insieme a Brescia e Milano ha il primato dei positivi al covid19 in Italia, l’ospedale Papa Giovanni è arrivato a ospitare 650 pazienti Covid su 950 posti totali. “Noi siamo stati la Wuhan d’Italia. L’ospedale era diventato praticamente tutto covid, con un’area critica che riusciva a tenere 100 pazienti intubati. Oggi ci sono poco meno di 200 pazienti Covid e la terapia intensiva è passata a 58 pazienti Covid, quindi circa la metà“.

Dal Pronto Soccorso arriva l’altro dato che fa sperare. “Abbiamo avuto – dice Lorini – picchi di 90 pazienti al giorno che si presentavano al pronto soccorso, tutti Covid. Ora siamo arrivati ad averne circa 20 al giorno, e di questi pochi, solo 3 o 4 vengono ricoverati. Ora cominciano ad arrivare anche 50 pazienti non Covid”.

Il terzo numero chiave è quello dei morti: “Tra i numeri è il più solido per capire il trend, perché il numero di contagi è direttamente proporzionale al numero di tamponi. Noi siamo arrivati a picchi di 17-18 decessi al giorno, da ieri a oggi ce n’è stato solo uno ed è così da qualche giorno”. 

Da giovedì, il 23 aprile, a Bergamo partono i test sierologici, e i primi a essere sottoposti all’esame saranno gli operatori sanitari. “Speriamo. Ci daranno una mano per liberare in maniera scientifica il nostro Paese, per mappare un po’ di più i contagi, per far lavorare il personale sanitario in sicurezza. E’ importante che noi in prima persona non facciamo danni ai pazienti: dovremmo essere testati tutti e non sarà facilissimo”. La fine del lockdown il 4 maggio, secondo il primario, non è azzardata.

Un medico che non capisce che va considerato anche l’aspetto economico, produttivo e di sostentamento delle persone non vive nel mondo ma in un laboratorio. Se il problema economico non esistesse, si potrebbero fermare tutti fino a zero contagi, e io penso che ci vogliano altri due mesi per avere contagi zero (in Lombardia, ndr), ma tra due mesi il 30% delle aziende ha chiuso e non aprirà più: si deve trovare una mediazione corretta a questo. Avere tamponi e test sierologici mi sembra un modo abbastanza intelligente per ripartire”.

L’ospedale alla Fiera di Bergamo costruito dagli alpini vi è servito? “Noi l’abbiamo fatto funzionare. Ci sono dentro 53 pazienti, anche intensivi. Abbiamo un reparto, una terapia intensiva e subintesiva. Ha fatto il suo mestiere. Avremmo voluto averlo prima? Sicuramente avrebbe fatto ancora meglio, ci avrebbe aiutato a svuotare l’ospedale. E potrebbe essere intelligente averlo in futuro. Vogliamo tornare a fare della clinica ‘non covid’: le persone continuano ad avere tumori, aneurismi..”.

La situazione di normalità nei reparti, però, è ancora lontana. “In mancanza di test sierologici e tamponi per tutti – spiega Lorini – è difficile aprire un ospedale che è stato Covid, rischiamo di contaminare persone malate. Abbiamo fatto urgenze, trapianti, ciò che non potevamo non fare. Adesso, dopo i test, si aprirà lentamente, ma con il massimo della sicurezza possibile per tutti”. Secondo il primario, è ancora presto per capire gli effetti psicologici della crisi sanitaria sui suoi colleghi, medici e infermieri. “Alcuni sono rimasti più lucidi, altri più fragili non hanno retto, ne hanno risentito, questo fa parte della vita”. Per Lorini, i momenti più critici sono stati quelli organizzativi: “Alzavo una palizzata venerdì, mi inventavo – racconta – un’area intensiva per altri otto pazienti che dovevano essere intubati, e lunedì bisognava inventarsene un’altra. Siamo andati avanti così per tre settimane così”. La prova più forte “quando ho dovuto intubare chirurghi e anestesisti che lavorano e hanno lavorato vent’anni con me, amici di sempre”.

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