Coronavirus, lettera aperta dei medici agli italiani: “I test per tutti non ci sono, la soluzione alla pandemia si basa sull’isolamento personale. E basta con la caccia al colpevole”

Una cinquantina di medici hanno scritto una lettera aperta indirizzata a tutti gli italiani in una riflessione ad ampio raggio su come il Paese si sta approcciando all'emergenza coronavirus
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Una cinquantina di medici di centri di tutta Italia, in prima linea nella lotta a Covid-19, hanno scritto una lettera aperta indirizzata a tutti gli italiani in una riflessione ad ampio raggio su come il Paese si sta approcciando all’emergenza coronavirus. Tra i firmatari, figurano diversi nomi di Bergamo, una delle province più colpite dai contagi, ma ci sono medici operativi a Catanzaro, Padova, Rimini, Pavia, Napoli, in tutta Italia e persino nelle svizzere Locarno e Ginevra. I primi due a mettere la sigla sono Stefano Fagiuoli (Bergamo) e Claudio Puoti (Roma). Le discipline di riferimento sono varie, spaziano dall’infettivologia all’anestesia e rianimazione, dalla medicina interna alla gastroenterologia. I firmatari hanno combattuto il virus negli ospedali dove lavorano, alcuni di loro si sono ammalati, molti sono stati intervistati. Fra i temi toccati, c’è quello dei numeri dell’epidemia, dei tamponi e della “caccia al colpevole” che si è scatenata.

In principio fu la Cina. E, ricostruiscono i medici, in Italia “prevaleva l’occhio di un osservatore, l’occhio di qualcuno che non riteneva sarebbe stato ‘un nostro problema’. Neppure quando la Corea ha reagito persino più aggressivamente in termini di isolamento sociale, abbiamo pensato che fosse davvero un nostro problema“. Poi a fine gennaio “si è cominciato a pensare che eravamo davanti a qualcosa di cui, volenti o nolenti, ci si sarebbe dovuti fare carico”. In Italia, “multipli focolai (ma solo poi riconosciuti non come i primi in Europa) hanno subito allertato l’attenzione: gran parte dell’Europa e la ‘Cnn’, hanno quasi da subito concluso che fosse il nostro paese la prima causa di diffusione della epidemia in Europa”. L’impennata clamorosa di casi, di casi severi, di persone che morivano, l’intasamento repentino degli ospedali di una zona concentrata del paese, ha spinto troppi a domandarsi prima ‘per colpa di chi’. E così ecco il fiorire di teorie che di volta in volta imputavano il disastro all’inadeguatezza del sistema sanitario e al suo improvvido impoverimento”. Poi, continuano i camici bianchi, “l’evidenza è esplosa: prima la Spagna, che è stata persino più sovrastata di noi; seguita a ruota da Francia, Germania ed Inghilterra le cui impennate sono attualmente ancora in corsa; infine gli Stati Uniti con contagi e morti che in soli 15 giorni hanno più che triplicato i dati cinesi e più che doppiato quelli europei. E a questo punto è chiaro anche ai più restii che il problema è mondiale“.

Per gli autori della lettera aperta, “il primo clamoroso errore di attribuzione di responsabilità è l’aver immediatamente associato la numerosità dei contagiati di un’area come metro di paragone della qualità del sistema sanitario dell’area stessa”. Altro aspetto che è stato oggetto di “ardite comparazioni“, analizzano i camici bianchi, “è ‘l’eccessivo’ tasso di ricoveri, che avrebbe finito per peggiorare le cose. La gestione domiciliare, ove possibile, garantirebbe migliori risultati nel contenimento“. Ma poi, fanno notare gli esperti, “c’è la realtà: nelle zone ad alta endemia, circa il 20% dei pazienti che si sono presentati in pronto soccorso non sono sopravvissuti, ben oltre il 50% ha necessitato di supporto ventilatorio anche aggressivo e ‘solo’ il 20-30% era in realtà dimissibile, seppur con una polmonite. Davvero qualcuno ritiene ancora che, con questi numeri, queste persone si sarebbero potute tenere ‘a casa’? Migliaia e più pazienti rappresentano un dramma gestionale per qualunque sistema sanitario del mondo, e stiamo vedendo ora l’immensità del problema a New York”. Altra voce ricorrente che viene presa in considerazione è “che l’Italia avrebbe pagato un prezzo alto per la carenza di posti in Unità intensiva: allora andrebbe spiegato perché la regione italiana che non solo aveva il maggior numero di letti di unità intensive, ma che lo ha incrementato di quasi il 40-50% entro 2-3 settimane, sia ancora una volta la più colpita. O si tratta ancora una volta di ‘dimensione del focolaio’ e caratteristiche dell’area in cui si attiva? E’ importante – suggeriscono – che tutti gli attori della comunità scientifica evitino in questa fase atteggiamenti polemici. L’unico modo di ripartire sarà nel ri-attribuire alla classe medica e scientifica il ruolo perso nella società pre-Covid-19. La medicina e i medici devono riappropriarsi delle strategie concrete e dell’obiettivo di salute e benessere, riacquistando un potere di negoziazione e un’autorevolezza perduta e troppe volte barattata per qualche vantaggio comunicativo”.

Foto di Andrew Theodorakis / Getty Images

“Ora dire che si devono fare tamponi a tutti è certamente di facile comprensione e raccoglie ovvi consensi. Ma forse si dovrebbe raccontare la verità, e cioè che i test per tutti non ci sono (e dubitiamo ci saranno mai), né risorse organizzative ed economiche per farli. Pertanto dovranno essere considerate strategie ‘progressive’, mirate a campioni della popolazione”, scrivono i medici. “Il fenomeno ‘numero di positivi’ dipende da fattori interconnessi e non sempre identificabili. Il primo è il numero di test che sono stati effettuati. Ora, nei piccoli numeri è certamente un fattore concreto e reale. Ma su larga scala, troppo spesso ciò che è giusto fare non è semplicemente sostenibile: le risorse tecniche e di materiali non sono state e non saranno mai sufficienti ad eseguire test a tutta la popolazione. Nell’immediato, mentre è stata in corso la massima emergenza, non sono stati disponibili neanche test sufficienti per ‘selezionati’ campioni di popolazione. Ricordandoci che in una pandemia ogni negativo al test deve esservi sottoposto periodicamente e ripetutamente: non c’è un modello di automazione che consenta tali milioni di test e non c’è la produzione di reagenti per sostenerli”. La tecnologia, proseguono i medici firmatari della lettera, “ci sta solo recentemente mettendo a disposizione dei test rapidi, più adeguati: ma ancora una volta, la effettiva disponibilità capillare e la sostenibilità economica devono essere attentamente considerate“.

Per quanto riguarda i numeri di questa epidemia, per i camici bianchi il cuore del problema è che “i luoghi dove scoppia un focolaio presentano differenze in termini di densità di popolazione, di livello di industrializzazione, di relazioni commerciali internazionali, di presenza di interconnessioni ferroviarie, autostradali o aeroportuali, di fattori orografici che possono facilitare o rendere complesso l’isolamento fattivo ed infine di differenze culturali (il fatto di stringersi la mano, la promiscuità fisica come socialmente accettata) e sociodemografiche (numero di componenti famigliari, ossia persone che vivono sotto lo stesso tetto)”.

I camici bianchi nella loro lettera aperta agli italiani parlano anche di false illusioni.Se qualcuno ritiene ancora che la soluzione di una pandemia di questa portata, possa poggiare principalmente sugli aspetti ‘tecnici, sanitari o farmacologici’, vive certamente in una falsa illusione”, ribadiscono. “Se viceversa, si accetta pienamente il principio che la ‘vera’ soluzione è socio-epidemiologica, cioè basata sull’isolamento personale (e non ‘familiare’), allora la strada appare percorribile. Ma questo implica il credere fermamente nel principio che la comunicazione sia pienamente parte del processo di gestione e cura di questa pandemia, e agire fermamente in tale direzione“.

Sul tasso di letalità del virus Sars-CoV-2, i medici puntualizzano: “La definizione corretta è: la proporzione, in percentuale, di decessi per una specifica malattia sul totale dei soggetti ammalati in un determinato arco temporale. Questo insistente riferimento a numeri che, per definizione, non possono essere calcolabili né tantomeno comparabili tra paesi o zone con politiche di test o di report dei dati clamorosamente differenti, rende ragione di numerose discussioni su una ‘presunta’ maggior letalità in Italia: in determinate aree di fatto si sono eseguiti dei test solo nei pazienti che accedevano alle strutture ospedaliere; come si può immaginare sia possibile una corretta valutazione della percentuale di letalità?”. Sul numero di ‘guariti‘ valgono le stesse considerazioni, per i medici. “Senza un denominatore adeguato, si può solo stimare la percentuale di guariti tra coloro che sono stati ricoverati (ovviamente stimando inadeguatamente la quota di chi non ce l’ha fatta ad arrivare in ospedale). Apprendere è un processo lento e metodico, concetto che si scontra con la rapidità di questa pandemia e con la ricerca di rimedi. Apprendere da eventi inimmaginabili e portentosi come questo, non può non essere parte di un processo complesso e faticoso: richiede, osservazione, raccolta, misurazione, descrizione, analisi e valutazione. E dopo tale faticoso processo, in genere, si ricomincia daccapo. Perché alla fine, solo i numeri (‘corretti’), saranno ciò che ci aiuterà davvero ad imparare”.

E’ quasi automatico, prima ancora di cercare di documentare, analizzare ed interpretare i fenomeni, dare via alla competizione per la ricerca dei colpevoli. E, di solito, è una tentazione molto veloce in tempi e modi. Ma siamo certi che sia questa la metodologia corretta per trarre conclusioni su eventi così ‘nuovi e destabilizzanti’?”. I medici hanno anche analizzato alcuni fenomeni che si stanno verificando, dal “bisogno ‘sociale’ di additare un responsabile per ogni evento” a quello di “trarre conclusioni a ‘partita’ in corso”. “Questo metodo – scrivono i camici bianchi – di fatto si discosta dal consueto rigore con cui si analizza qualunque ‘novità’ in campo scientifico”. “Perché – si chiedono – tale approccio rigoroso non deve valere in questa circostanza? Perché troppi cadono nella trappola della ‘ricerca del colpevole’ quando la partita è ancora in svolgimento?“. Quella delle “conclusioni affrettate“, ammoniscono, “è certamente la cifra distintiva dell’approccio generale (addetti ai lavori, istituzioni, politici, popolazione generale, media) che abbiamo osservato fin dall’inizio di quella che poi si è rivelata una pandemia. Pandemia che mai, nei nostri tempi, si era manifestata con questa virulenza e imprevedibilità”. Gli esperti offrono tre “consigli per tutti noi: evitiamo conclusioni basate su dati epidemiologici incompleti, rimandiamo la disamina scientifica di quanto accaduto a una fase successiva, in un’ottica di miglioramento e di miglior bilanciamento ospedale-territorio; abbassiamo i toni ed evitiamo i personalismi; operiamo già da oggi affinché la medicina e i medici sappiano riconquistare un ruolo attivo nelle strategie sanitarie volte a garantire salute e benessere”.

Tra i firmatari della lettera aperta figurano nomi come quello dell’infettivologo del San Matteo di Pavia Raffaele Bruno, fra i medici che si sono occupati del paziente 1 d’Italia, Mattia; Roberto Cosentini, responsabile del Pronto soccorso al Papa Giovanni XXIII di Bergamo, e il collega responsabile della Rianimazione Luca Lorini; Antonio Gasbarrini del Policlinico Gemelli di Roma; Paolo Antonio Grossi, infettivologo Asst Sette Laghi, università dell’Insubria di Varese; Giuliano Rizzardini dell’ospedale Sacco di Milano. E la lista è lunga, con esperti da Padova a Firenze, fino a Salerno e Palermo.

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