I numeri della pandemia di Coronavirus potrebbero essere sovrastimati, perché i test rileverebbero anche virus “morto”: è quanto ha scoperto il Center for Evidence-Based Medicine dell’Università di Oxford, secondo cui i numeri dei soggetti positivi potrebbero essere “falsati” perché il test principale utilizzato per la diagnosi è così sensibile che potrebbe rilevare anche frammenti di virus “morto” legato a vecchie infezioni.
Secondo i ricercatori britannici l’eccessiva sensibilità dei test potrebbe portare a una sovrastima dell’attuale dimensione della pandemia.
Il team di esperti del Center for Evidence-Based Medicine dell’Università di Oxford ha studiato i dati di 25 ricerche in cui campioni di virus da test positivi sono stati messi in una capsula di Petri per vedere se si sviluppavano. Il metodo può infatti indicare se il test positivo ha davvero rilevato virus attivi che possono riprodursi e diffondersi, o solo frammenti di virus morti che non possono farlo.
Dallo studio è emerso che l’infettività del Coronavirus “sembra diminuire dopo circa una settimana“.
Inoltre, secondo gli esperti, la probabilità di falsi positivi potrebbe essere ridotta se si riuscisse a individuare un discrimine, minimizzando anche il rischio di quarantene inutili.
“E’ possibile e se ne discute, perché l’indagine molecolare in effetti vede le sequenze genetiche e non il virus vivo. Ma adesso è giusto considerare i risultati positivi e comportarsi di conseguenza, in termini precauzionali“: lo ha spiegato all’Adnkronos Salute il virologo dell’Università di Milano Fabrizio Pregliasco, commentando lo studio britannico. “Adesso è giusto fare i test e farli in modo razionale e massiccio, per ostacolare il cammino del virus nel nostro Paese e contrastarne la diffusione. Però si tratta di un tema che merita un approfondimento: la stessa Organizzazione mondiale della sanità ha detto che dopo 10 giorni dall’insorgenza più 3 senza sintomi non si è più positivi“.