L’emisfero settentrionale si ritrova a fare i conti con la tanto temuta e attesa seconda ondata di contagi di Covid-19, la malattia causata dal coronavirus SARS-CoV-2. In Europa, violentemente colpita in questa fase, i numeri dell’infezione sono in aumento ovunque, dopo un consistente calo delle infezioni occorso nei mesi di fine primavera e inizio estate, favorito dalle condizioni meteorologiche come le maggiori ore di luce e le temperature più alte. Ora che siamo in autunno, la pandemia torna a ruggire proprio in concomitanza con il calo delle temperature e delle ore di luce naturale.
Diversi studi hanno evidenziato l’effetto positivo della luce ultravioletta nel contrastare la capacità di diffusione del virus nell’aria e, dunque, la sua capacità di infettare altre persone attraverso le droplets emesse dalle persone contagiate. Ora un nuovo studio, condotto dai ricercatori del Boston Children’s Hospital, dell’Harvard Medical School, dell’Harvard T.H. Chan School of Public Health e dell’Harvard University e pubblicato su Nature, ha indagato sulla variabilità spaziale dei numeri di riproduzione di base del COVID-19 tra le province e le città della Cina, Paese in cui il virus si è manifestato per primo.
“Gli studi sull’influenza dimostrano che i virus dell’influenza sopravvivono più a lungo sulle superfici o nelle droplets se l’aria è fredda e secca, aumentando la probabilità di una conseguente trasmissione. È importante proporre metodologie per comprendere gli effetti dei fattori ambientali su questa epidemia in corso per supportare le decisioni che riguardano il controllo della malattia”, scrivono i ricercatori nel loro studio. Dopo aver citato studi in materia che hanno dato risultati contrastanti, gli esperti sottolineano che “quantificare la relazione tra la trasmissione del Covid-19 e le variabili meteorologiche è un compito arduo per molteplici ragioni”.
Lo studio è stato condotto dal 22 gennaio 2020 al 26 febbraio 2020, con i principali focolai che nelle province cinesi si sono verificati dall’inizio di gennaio alla fine di febbraio. Inoltre, per definire l’evoluzione temporale dell’epidemia di Covid-19, il numero di riproduzione Rproxy è stato calcolato per due diversi periodo di tempo: il primo dal 22 gennaio all’8 febbraio e il secondo dal 9 febbraio al 26 febbraio. Nell’analisi degli esperti, nel primo periodo, la maggior parte delle regioni ha una stima di Rproxy ben al di sopra di 1, il che segnala una sostenuta trasmissione della malattia. Le stime di Rproxy sono diminuite drasticamente nel secondo periodo, molte al di sotto di 1, probabilmente come conseguenza dei molteplici interventi non farmaceutici implementati dalle autorità cinesi.
“La temperatura ambientale sembra essere associata alla trasmissione di COVID-19 durante il primo periodo (22 gennaio-8 febbraio), in assenza di filtraggio dei dati. Nello specifico, la temperatura ha mostrato una relazione negativa, indicando che temperature più alte sembrano avere una trasmissione più bassa. Questi risultati non sono stati solidi alle tecniche di filtraggio che mirano a rimuovere valori di rumore, come valori di Rproxy irrealisticamente alti (oltre 3). Nel tentativo di identificare se i tassi di trasmissione potessero essere spiegati dal tasso di importazione dei casi a livello di provincia, abbiamo analizzato se la mobilità da Wuhan a ciascuna provincia potesse spiegare la variabilità spaziale di Rproxy durante il primo periodo. I nostri risultati non hanno mostrato associazioni tra la mobilità e Rproxy in assenza del filtraggio dei dati ma hanno mostrato che Rproxy potrebbe essere spiegato dalla mobilità quando vengono rimossi i valori di Rproxy maggiori di 3. Infine, la nostra analisi suggerisce che l’umidità assoluta non è stata associata in maniera solida a Rproxy ma questi risultati devono essere interpretati con attenzione. In altre parole, se la temperatura fosse associata alla trasmissione di COVID-19, molto probabilmente l’umidità assoluta svolgerebbe un ruolo”, scrivono i ricercatori.
“La nostra analisi quasi in tempo reale riguardo l’impatto dei fattori ambientali sulla trasmissione di COVID-19 in Cina potrebbe fornire utili implicazioni per i decisori politici e il pubblico in tutto il mondo. Una trasmissione sostenuta e una crescita rapida sono state osservate su una serie di condizioni di temperatura e umidità, che vanno dalle province fredde e asciutte in Cina, come Jilin e Heilongjiang, alle località tropicali, come Guangxi e Taiwan, durante il primo periodo. I nostri risultati dimostrano che il meteo da solo non riesce a spiegare, in maniera solida, la variabilità del numero di riproduzione nelle province o città cinesi. Inoltre, drastiche riduzioni nella trasmissione sono state osservate durante la seconda metà di febbraio, probabilmente a causa degli interventi non farmaceutici imposti in Cina. Inoltre, possiamo vedere che tutti questi risultati sono stati confermati in questi ultimi mesi”, si legge nello studio.
“I nostri risultati suggeriscono che i cambiamenti delle condizioni meteorologiche (per esempio, aumento della temperatura e umidità con l’arrivo di primavera ed estate nell’emisfero settentrionale) non portano necessariamente a cali nel conteggio dei casi senza l’implementazione di drastici interventi di salute pubblica”, concludono i ricercatori.