All’inizio della pandemia da coronavirus SarsCoV-2, nel conteggio dei casi registrati e nelle indicazioni in merito all’infettività della stessa, si faceva riferimento all’indice R0 (erre con zero). Ora il dato a cui si fa riferimento per comprendere la capillarità e la potenzialità di infezione del virus è l’indice Rt (erre con t). In sostanza si tratta della medesima cosa, ma nel concreto cambia il contesto nel quale i due indici vengono calcolati. Il primo, R0, è riferito alla potenzialità di contagio in una società che per la prima volta si ritrova ad avere a che fare con il virus in questione; il secondo, Rt, è riferito sempre alle infezioni secondarie causate da ciascun individuo infetto, ma questa volta in una popolazione che è già venuta in contatto con il virus e all’interno della quale sono state già adottate misure precauzionali utili a far diminuire il tasso di contagio.
Dunque, se R0 è pari a 1 significa che ogni contagiato può potenzialmente, a sua volta, trasmettere il virus ad un’altra persona. In Italia, dopo l’adozione delle misure di contenimento dell’infezione da SarsCoV-2, il tasso di contagiosità è nettamente diminuito, dunque l’Istituto Superiore della Sanità ha iniziato a mostrare un indicatore diverso da R0, ovvero l’indice Rt. Come ha spiegato l’epidemiologa Stefania Salmaso, “Intuitivamente è apprezzabile che il valore è direttamente proporzionale al numero di contatti per giorno del caso primario (più persone incontra, più persone si infettano), alla durata della sua fase di contagiosità (più a lungo rimane contagioso, più è alto il numero delle persone che contagia), alla probabilità di trasmissione dell’infezione per singolo contatto”. Ovvio che, meno misure vengono prese più l’indice di contagio tende a salire, fisiologicamente e logicamente dato che parliamo di un virus altamente infettivo. Infettivo, dunque, ma non altamente letale. E questo è un dato di fatto.
Per calcolare in modo corretto l’R0 si dovrebbe considerare tutto il periodo in cui un infetto rimane contagioso, ma il dato in questione spesso non è disponibile, visto che è nota per lo più solo la data della sua notifica di positività all’autorità sanitaria. I metodi di calcolo seguiti sono poi abbastanza diversi anche se in linea di massima i risultati sono convergenti. R0 si basa necessariamente su semplificazioni e dipende da uno svariato numero di fattori, variabili e imprevedibili, dal clima, alla densità di popolazione, dalle misure adottate all’età dei soggetti infetti.
Di certo c’è che l’indice R spesso è molto incerto, dato che non esiste un modello che possa prendere in considerazione tutta l’eterogeneità spazio-temporale di un qualsiasi contesto epidemiologico, o anche il grado di trasmissibilità o vulnerabilità alle infezioni. Il numero riproduttivo di base di un’infezione, inoltre, nel mondo reale e non nei calcoli, viene costantemente modificato nel corsi di un’epidemia, soprattutto se entrano in gioco misure di contenimento come quelle adottate nel nostro Paese ormai da mesi.
L’indice R, in certo senso, omogeneizza ciò che omogeneo non è. La stima di trasmissione del virus nella popolazione, infatti, prevede che tutti abbiano le stesse probabilità di contrarre l’infezione. Ma così di fatto non è. Chi sta a casa e non frequenta locali pubblici, ad esempio, ha meno possibilità di contagiarsi. Ma se dovesse avere un familiare convivente positivo, quella possibilità aumenta in maniera esponenziale, pur senza uscire di casa. E’ lapalissiano, dunque, che non tutta la popolazione abbia le stesse probabilità di contagio. Detto questo, però, è necessario capire perché l’indice R alto non sia per forza di cose un dato negativo, o almeno non del tutto. L’aumento di quel valore indica sicuramente una maggiore possibilità di contagiarsi e di diffusione dell’infezione, ma allo stesso tempo ci dice che la mortalità è decisamente bassa.
Per capirne il meccanismo mettiamo a confronto altri due coronavirus: il SARS-Cov che ha causato l’epidemia del 2002-2004 e la MERS, o sindrome respiratoria mediorientale da coronavirus (conosciuta anche come Influenza cammello). Quest’ultima epidemia è causata da un coronavirus simile al virus della SARS, ma la malattia che provoca, seppur simile nei sintomi alla SARS stessa, presenta una maggiore mortalità; il suo tasso di letalità è pari a circa il 34%, mentre per la SARS è del 10%. Ebbene, se andiamo a vedere gli indici R di questi due virus, scopriamo che quello della MERS è decisamente inferiore a quello della SARS: il valore si assesta tra 0,3 e 0,8 per la prima, e niente meno che tra 2 e 5 per la seconda.
Se oggi ci dicessero che il nuovo coronavirus colpevole dell’attuale pandemia ha un indice R di 5 andremmo nel panico, ma la verità è che significherebbe una sola cosa: il virus è altamente infettivo ma non mortale, visto che chi lo contrae ha la capacità di infettare ben cinque soggetti, e dunque vuol dire, concretamente, che sta bene, è vivo e vegeto, e conduce la sua sua vita normalmente, sintomi permettendo. Perché nel caso di un virus più mortale l’indice si abbassa? Semplice: la maggiore mortalità, che spesso sopraggiunge in pochi giorni, impedisce alla persona contagiata di infettare altri soggetti, visto che con molta probabilità il contagiato sta male, è allettato, probabilmente intubato e in isolamento. E, in estrema ratio, un infetto morto non può contagiare nessuno e dunque ecco che l’indice R si abbassa benché il virus sia estremamente pericoloso.
Per comprendere ancora di più questo concetto osserviamo anche le stime di R per la varicella, fra 3,7 e 5; il morbillo, addirittura fra 12 e 18; per l’influenza stagionale, tra 0,9 e 2,1. Balza subito all’occhio il dato del morbillo, a fronte del quale la situazione è la seguente: dal primo gennaio 2016 al 28 Febbraio 2019, in Italia si sono verificati in totale 9277 casi di morbillo con soli 13 morti a causa delle complicanze. L’indice dell’influenza stagionale, invece, è decisamente basso, ma la mortalità, secondo i dati dell’Istituto Superiore della Sanità, è decisamente sorprendente: “Durante la diciassettesima settimana del 2018 la mortalità è stata inferiore al dato atteso, con una media giornaliera di 184 decessi rispetto ai 199 attesi“, si legge su Epicentro. Dunque una media di 184 morti al giorno era, nel 2018, un dato decisamente confortante.
E’ chiaro che tutto questo non significa che l’epidemia in corso vada sottovalutata, o addirittura negata. Anzi: la prudenza in questo preciso momento storico è quanto mai provvidenziale. Ma alla luce di tutto questo appare chiaro che le poche misure consigliate dal Comitato Tecnico Scientifico (mascherina, distanziamento sociale e igiene delle mani) potrebbero essere più che sufficienti per tornare ad una vita quasi normale, senza la necessità di grossi stravolgimenti. La pandemia è stata ed è virulenta e ci ha colti impreparati, ma non è la prima volta e non sarà l’ultima. Abbiamo visto di peggio, questa è la verità, e il modo in cui, come società, affronteremo i prossimi mesi segnerà gli anni a venire e metterà un timbro indelebile sul nostro futuro.