Accadde oggi, nella notte tra il 6 e il 7 febbraio 1783 uno tsunami colpì la Calabria: la storia del maremoto di Scilla

Il terribile tsunami di Scilla, il maremoto che ha causato più morti nel nostro Paese, si verificò mentre la Calabria era in piena 'crisi sismica'
MeteoWeb

Nella notte tra il 6 e il 7 febbraio 1783 si verificò il maremoto di Scilla, ovvero lo tsunami italiano che ha causato il maggior numero di vittime. Il 5 gennaio, in Calabria, un terremoto di magnitudo 7.1 aveva dato il via ad un periodo sismico passato alla storia come uno dei più disastrosi del nostro paese. Nei giorni successivi le scosse si susseguirono incessantemente. Quella notte di febbraio, dopo il sisma, si verificò una frana: nel giro di uno-due minuti un’enorme ondata si abbatté su Scilla, travolgendo la popolazione che si era erroneamente rifugiata sulla spiaggia.

Nel 1783 iniziò quella che è passata alla storia come la grande crisi sismica in Calabria, durante la quale si verificarono due grossi terremoti che hanno interessato la dorsale calabra dallo Stretto fino a nord”, ha spiegato il prof. Stefano Tinti docente di geofisica dell’Università di Bologna, illustrando come tra il 6 e il 7 febbraio “a Scilla avvenne il maremoto che in Italia ha causato il maggior numero di vittime: ben 1500 persone”.

Antica incisione che illustra le onde di maremoto prodotte dal terremoto del 5 febbraio 1783 nello Stretto di Messina.

Il devastante tsunami fu causato da una enorme frana (un fronte di circa 500 metri ed un volume di diversi milioni di metri cubi) che si era staccata dal Monte Pacì (a Sud di Scilla), rovinando precipitosamente in mare in pochi secondi. “L’errore – spiega Tinti – fu dovuto al fatto che la popolazione si era raccolta nella Marina Grande di Scilla, per via della convinzione erronea che la spiaggia fosse un posto sicuro per proteggersi da frane e scosse. In realtà è tutto il contrario: nelle zone a rischio maremoto è il luogo meno sicuro, e infatti quello fu lo tsunami che in Italia ha causato il maggior numero di morti. Alle vittime calabresi vanno sommate altre 20 circa in Sicilia”.

Gli eventi sismici di quei giorni

Formazione di crateri di depositi sabbiosi nella Piana di Gioia Tauro (Atlante iconografico allegato alla “Istoria” di M. Sarconi, 1784).

Tra il 1783 ed il 1785 la Calabria meridionale venne interessata da quella che ancora oggi è considerata dai sismologi una “crisi sismica”, durante la quale si verificò una lunga serie di terremoti, vicini tra loro e spesso disastrosi al punto da cambiare radicalmente la morfologia del territorio. Vi furono montagne letteralmente spaccate in due, come ad esempio il colle su cui sorgeva Oppido Mamertina che poi venne ricostruita in altro luogo. Nella valle del Mesima apparvero strani crateri circolari. Sorsero nuove sorgenti e geysers. Si verificarono numerosi fenomeni di liquefazione, con fratture radiali del terreno e fagliazione superficiale. Numerose frane ostruirono i corsi d’acqua e nacquero in questo modo almeno 200 nuovi laghi, sconvolgendo l’intero sistema idrogeologico della zona. La crisi toccò il suo apice tra il Febbraio e il Marzo del 1783 quando, nel giro poco meno di due mesi, si verificarono ben cinque grandi terremoti, a ciascuno dei quali si associò uno tsunami.

I cerchi colorati corrispondono agli epicentri dei 5 terremoti più forti della lunga sequenza sismica del 1783 (5 febbraio, 6 febbraio, 7 febbraio, 1 marzo e 28 marzo). Il colore e le dimensioni dei cerchi indicano la massima intensità osservata Imax (Fonte: CPTI11).

Erano le 00.20 del 7 Febbraio 1783 quando una scossa di magnitudo 6.3 e grado Scala Mercalli VIII-IX, si verificò in Calabria con epicentro sulla costa di Villa S. Giovanni. A Scilla ulteriori costruzioni, oltre a quelle già distrutte, furono lesionate. La popolazione, spaventata, venne prese dal panico. Poco dopo la scossa avvenne la frana: nel giro di uno-due minuti un’enorme ondata si abbatte su Marina Grande, travolgendo la popolazione che si era rifugiata sulla spiaggia. Il mare seppellì tutto, risalendo il vallone del torrente Livorno per diverse decine di metri, con un run-up stimato di almeno dieci metri (alcune testimonianze parlano di “acqua fino ai tetti delle case”), inondando anche il borgo di Chianalea e la zona di Oliveto. Il bilancio fu di oltre 1500 morti. I cadaveri, alcuni dei quali resi irriconoscibili, vennero bruciati per evitare infezioni. Diverse vittime vennero ritrovate sui terrazzi e sui tetti delle case, altre ancora sugli alberi. Il mare continuò a restituire corpi e detriti per oltre un anno.

Condividi