Quando la pandemia da SARS-CoV-2 ha colpito l’Italia a inizio 2020, è stato come uno tsunami per il Nord Italia, con un impatto molto più forte in termini di mortalità e morbilità rispetto alle regioni del Sud. I motivi di tale differenza potrebbero coinvolgere diversi fattori. In uno studio pubblicato sulla rivista Science of The Total Environment, i ricercatori di varie università ed enti italiani, tra cui ENEA e diverse agenzie regionali per la protezione ambientale (ARPA), hanno analizzato se esistono correlazioni tra la distribuzione spaziale dei casi di COVID-19 e i decessi nelle diverse regioni italiane e la quantità di radiazione ultravioletta solare sulla superficie terrestre. Lo studio, il primo in Italia che utilizza le reali misurazioni della radiazione ultravioletta, ha lo scopo di comprendere meglio un tasso di infezione così alto nel nord del Paese e soprattutto, di esaminare se la diversa distribuzione degli UV in Italia supporti l’ipotesi di un ruolo attivo svolto dalla radiazione solare nella trasmissione del virus.
“In primo luogo, la pandemia si è rivelata particolarmente aggressiva nelle persone più anziane (il 78,4% dei pazienti deceduti aveva tra i 60 e gli 89 anni), soprattutto nei residenti delle case di riposo. In secondo luogo, le regioni settentrionali hanno sperimentato molti più casi (fino a quasi l’1% della popolazione, in Valle d’Aosta) e decessi (fino all’1,6 per 1.000 abitanti, in Lombardia) rispetto a quelle meridionali (solo lo 0,06% dei casi e 0,05 decessi per 1.000 abitanti, in Calabria). Queste ultime caratteristiche possono essere difficilmente spiegate dall’attivazione dei lockdown nelle regioni più colpite a partire dal 23 febbraio e dal seguente lockdown in tutto il Paese, dal 9 marzo”, si legge nello studio.
“L’analisi mostra una significativa correlazione tra le variabili di risposta (percentuale di decessi, incidenza delle infezioni e test positivi) e radiazione ultravioletta solare biologicamente efficace, residenti in case di risposo per abitanti, temperatura dell’aria, percentuale di decessi a causa delle comorbilità più frequenti. Tra tutti i fattori, la quantità di radiazione ultravioletta solare è la variabile che contribuisce di più alla correlazione osservata, spiegando fino all’83,2% della variazione dei casi di COVID-19 per popolazione. Anche se i risultati statistici dello studio non implicano direttamente una specifica relazione causa-effetto, i nostri risultati sono coerenti con l’ipotesi che la radiazione ultravioletta solare abbia avuto un impatto sullo sviluppo dell’infezione e sulle sue complicazioni, per esempio attraverso l’effetto della vitamina D sul sistema immunitario o attraverso l’inattivazione del virus dalla luce solare”, scrivono gli autori.
I risultati dello studio sono i seguenti: “Tra tutti i fattori statisticamente significativi, inclusi comorbilità e residenti in case di riposo, è stato trovato che l’esposizione ai raggi UV è di gran lunga la più efficace nel descrivere la distribuzione geografica della pandemia in Italia, per tutte le variabili di risposta. In particolare, la percentuale della variazione spiegata dall’esposizione ai raggi UV nelle regressioni univariate va dal 41,4% per la percentuale di infezioni per numero di tamponi all’83,3% per la percentuale di infezioni per abitanti. Per le regressioni multivariate, la percentuale di variazione spiegata dalle variabili più statisticamente rilevanti (radiazione ultravioletta solare, temperatura dell’aria, residenti in case di riposo, comorbilità) va dal 43,8% all’85,5%”.
“Anche se i risultati non implicano direttamente una specifica relazione di causa-effetto, supportano l’ipotesi che l’esposizione alla radiazione ultravioletta solare – insieme ad altri fattori, come le condizioni sociali, demografiche e ambientali – influisca sulla trasmissione di SARS-CoV-2 e sui suoi esiti. Il setup statistico e i dati disponibili non ci permettono di distinguere l’effetto protettivo della vitamina D, sintetizzata dopo l’esposizione del sole, e l’effetto dell’inattivazione del virus attraverso la radiazione UV nell’ambiente esterno. Tuttavia, l’integrazione di vitamina D può essere raccomandata per ridurre la suscettibilità all’infezione, soprattutto nella popolazione anziana e fragile. Infatti, tra tutte le vie possibili, l’ipovitaminosi D potrebbe essere considerata un fattore in grado di contribuire alle malattie associate a COVID-19 e alla diffusione della pandemia”, si legge nello studio.
“Considerando la grande incidenza di ipovitaminosi D in molti Paesi, dovrebbe essere incoraggiata un’adeguata esposizione al sole per livelli sufficienti vitamina D, bilanciando gli effetti positivi e negativi della radiazione ultravioletta solare, soprattutto tra gli anziani. Dovrebbero essere promosse campagne di salute pubblica per aumentare il consumo di cibi ricchi di vitamina D o integrazioni farmaceutiche adeguatamente controllate e incoraggiare una più adeguata esposizione alla luce solare, soprattutto nei Paesi esposti al rischio di insufficienza o carenza di vitamina D”, concludono gli esperti nel loro studio.