Negli ultimi giorni hanno fatto molto clamore le parole di Walter Ricciardi, consigliere del Ministero della Salute Roberto Speranza, che ha invocato per l’ennesima volta la necessità di un nuovo lockdown per frenare l’epidemia da SARS-CoV-2 in Italia (lo dichiara ogni settimana da ottobre). Ma il lockdown è davvero la misura giusta per combattere l’emergenza sanitaria? Il direttore sanitario dell’Inmi Spallanzani di Roma, Francesco Vaia, ha affermato senza mezzi termini che “fare lockdown totali non serve, bastano chiusure mirate e chirurgiche dove se ne ravvisi la necessità. L’importante è applicare con rigore e severità le regole che già ci sono per guadagnare libertà progressiva, ed evitare le montagne russe dell’aprire e chiudere a fisarmonica. Serve equilibrio”.
In questo lungo anno di pandemia, ci sono stati molti esempi di Paesi che non hanno fatto ricorso a questa misura estrema. Il caso che ha fatto più discutere è senza dubbio quello della Svezia dove, per tutta la prima ondata, non ci sono state limitazioni alle libertà fondamentali dei cittadini, ma solo appelli al forte senso di responsabilità nel rispettare le misure di distanziamento sociale. Così, scuole e ristoranti sono rimasti sempre aperti e non vi era l’obbligo di indossare la mascherina, tanto meno quello di restare in casa. Con l’arrivo della seconda ondata, è stata introdotta qualche limitazione in più, ma niente che abbia a che vedere con il rigidissimo lockdown italiano.
In uno studio pubblicato su European Journal of Clinical Investigation, i ricercatori della Stanford University (California) hanno analizzato gli effetti degli interventi non farmaceutici più restrittivi, come obbligo di stare a casa e chiusura delle aziende, impiegati contro la pandemia. Gli esperti hanno valutato la crescita dei casi di COVID-19 in relazione all’implementazione di tali misure restrittive in 10 Paesi: Inghilterra, Francia, Germania, Iran, Italia, Paesi Bassi, Spagna, Corea del Sud, Svezia e Stati Uniti. La crescita dei casi in Svezia e Corea del Sud, che non hanno imposto lockdown, è stata utilizzata come confronto con gli altri 8 Paesi. Come la Svezia, la Corea del Sud ha scelto di non fare il lockdown, puntando su estesi investimenti in test, contact tracing e isolamento dei casi infetti e dei contatti stretti.
L’adozione della misura estrema del lockdown all’inizio della pandemia “era giustificata dalla rapida diffusione della malattia, dai sistemi sanitari sopraffatti in alcune località duramente colpite e dalla sostanziale incertezza sulla morbilità e mortalità del virus. A causa delle potenziali ripercussioni negative sulla salute, come fame, overdose da oppiacei, vaccinazioni mancate, aumento di malattie non COVID, abuso domestico, salute mentale e suicidio, è sempre più riconosciuto che i loro ipotizzati benefici meritino un attento studio”, scrivono gli autori nel loro studio.
I risultati dello studio
Il tasso di crescita dei nuovi casi prima dell’implementazione di qualsiasi intervento non farmaceutico era positivo in tutti i Paesi studiati: da 0,23 in Spagna a 0,47 nei Paesi Bassi. La media in tutti i 10 Paesi era di 0,32 mentre in Corea del Sud e Svezia, tale crescita era rispettivamente di 0,25 e 0,33. Ma gli effetti combinati di tutte le misure non farmaceutiche erano negativi in 9 Paesi su 10: da -0,10 in Inghilterra a -0,33 in Corea del Sud. In nessuno degli 8 Paesi in cui sono stati adottati interventi non farmaceutici più restrittivi e in nessuno dei 16 confronti con Svezia e Corea del Sud, gli effetti sono stati significativamente benefici. Le stime parlano di un aumento della crescita dei casi in 12 confronti su 16, si legge nello studio.
“Nel quadro di questa analisi, non ci sono evidenze del fatto che i lockdown abbiano contribuito sostanzialmente a piegare la curva dei nuovi casi in Inghilterra, Francia, Germania, Iran, Italia, Paesi Bassi, Spagna o Stati Uniti a inizio 2020. Confrontando l’efficacia degli interventi non farmaceutici sui tassi di crescita dei casi nei Paesi che hanno adottato misure più restrittive con quelle che ne hanno adottate di meno restrittive, l’evidenza non indica che quelle più restrittive abbiano fornito un ulteriore e importante beneficio. Anche se non possono essere esclusi modesti cali nella crescita giornaliera (sotto il 30%) in pochi Paesi, la possibilità di grandi cali nella crescita giornaliera dovuti a interventi farmaceutici più restrittivi è incompatibile con i dati accumulati”, scrivono i ricercatori.
Nella maggior parte degli scenari, lo studio indica “un aumento nel tasso di crescita dei casi. Anche se è difficile trarre solide conclusioni da queste stime, esse sono coerenti con una recente analisi che identificava una maggiore trasmissione a livello di popolazione e un aumento dei casi a Hunan (Cina), durante il periodo del lockdown, attribuiti ad una maggiore trasmissione intrafamiliare. In altre parole, è possibile che i lockdown possano facilitare la trasmissione se aumentano il contatto tra persone”, rendendo più efficiente la trasmissione in spazi chiusi, spiegano i ricercatori.
“I dati sui comportamenti individuali mostrano drastici cali nel tasso di crescita dei casi giorni o settimane prima dell’implementazione del lockdown nei Paesi studiati. Queste osservazioni sono coerenti con un modello in cui la gravità del rischio percepito dagli individui era un driver più forte dei comportamenti anti-contagio rispetto alla natura specifica degli interventi non farmaceutici. In altre parole, le riduzioni nelle attività sociali che hanno portato alla riduzione nella crescita dei casi stavano avvenendo prima dell’implementazione delle misure più restrittive perché le popolazioni nei Paesi colpiti stavano assimilando l’impatto della pandemia in Cina, Italia e New York. Questo potrebbe anche spiegare” le differenze degli effetti delle stesse misure restrittive in diversi Paesi, riporta lo studio.
Le conclusioni dello studio sono le seguenti: “anche se non possono essere esclusi piccoli benefici, non troviamo benefici significativi degli interventi non farmaceutici più restrittivi sulla crescita dei casi. Simili riduzioni nella crescita dei casi possono essere realizzabili con interventi meno restrittivi. Interventi sanitari pubblici più mirati che riducano più efficacemente le trasmissioni potrebbero essere importanti per il futuro controllo dell’epidemia senza i danni di misure altamente restrittive”.