Il 24 marzo del 1944, 335 italiani vennero trucidati a Roma dalle forze di occupazione tedesche come rappresaglia per l’azione partigiana del giorno precedente sotto il macabro motto “10 italiani per ogni tedesco”.
L’eccidio delle Fosse Ardeatine rappresenta uno dei tanti momenti bui della storia italiana durante la Seconda Guerra Mondiale ed è passato alla storia come simbolo della crudeltà nazista e ancora oggi rappresenta un imprescindibile monito per il futuro.
Gli antefatti della strage
A seguito dello sbarco degli Alleati in Sicilia, nel luglio del 1943 fu votata la sfiducia contro Mussolini da parte del Gran Consiglio del Fascismo; il 25 dello stesso mese re Vittorio Emanuele III fece arrestare il dittatore nominando un governo d’emergenza guidato dal Maresciallo Pietro Badoglio.
Badoglio dopo essere fuggito a Bari e aver stabilito la sede provvisoria del governo, firmò il cessate il fuoco con le forze alleate il 3 settembre del 1943 e l’8 settembre annunciò la resa dell’Italia.
Alcuni giorni dopo la resa agli Alleati, un commando tedesco agli ordini del Tenente Colonnello delle SS, Otto Skorzeny, liberò Mussolini e lo aiutò a raggiungere Salò, una cittadina sul lago di Garda, dove il dittatore instaurò quella che venne chiamata la Repubblica Sociale Italiana e che costituiva in realtà un governo fantoccio di matrice fascista.
Contemporaneamente le forze armate tedesche occuparono gran parte del Nord Italia e continuarono a scendere fino a Roma per occupare il Paese e contrastare l’avanzata delle truppe anglo-americane che avanzavano da Sud, combattendo sia contro le forze alleate sia contro la Resistenza fino alla resa finale del 2 maggio 1945.
I partigiani, infatti, agivano con operazioni di guerriglia per indebolire la Wermacht (l’esercito tedesco) e incitare la popolazione alla rivolta.
Il 23 marzo 1944, un gruppo di 17 partigiani appartenenti ai Gruppi d’Azione Patriottica (GAP) e guidati da Rosario Bentivegna azionò un ordigno esplosivo in Via Rasella a Roma nel momento in cui passava una colonna militare tedesca.
I resistenti riuscirono ad evitare la cattura disperdendosi tra la folla radunata sul luogo dell’attentato ma ciò non fermò la dura rappresaglia nazista che si abbatté su Roma.
L’unità tedesca coinvolta nell’attentato perse 28 soldati immediatamente mentre altri 5 morirono poco dopo portando il bilancio a 33 militari uccisi e alcuni feriti tra i presenti al momento dell’esplosione.
L’organizzazione della rappresaglia
La macchina vendicativa nel frattempo si era messa in moto e già la sera del 23 marzo quando il Comandante della Polizia e dei Servizi di Sicurezza tedeschi a Roma, Herbert Kappler, insieme al comandante delle Forze Armate della Wermacht di stanza nella capitale, Kurt Mälzer, studiò una feroce azione di rappresaglia che consisteva nella fucilazione di 10 italiani, tra coloro che erano condannati a morte nelle prigioni gestiste dai nazisti, per ogni militare tedesco del reparto “Bozen” ucciso durante l’azione partigiana.
Iniziò quindi la redazione della lista delle persone da fucilare ma dopo il primo controllo Kappler si accorse che i condannati a morte in attesa di esecuzione erano solamente 3; dai vertici viene consigliato di aggiungere i nomi di 65 ebrei già arrestati dai nazifascisti a Roma per completare la lista.
Vengono annotati i nomi di 16 attivisti antifascisti e inclusi nell’elenco Aldo Finzi e Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Kappler, con l’aiuto di Erich Priebke, estese sempre più la lista. I nomi sulla lista a quel punto erano 269, ma non erano sufficienti e agli italiani viene imposto di preparare al più presto la lista degli ultimi 60 nomi scegliendoli fra i “loro” reclusi del carcere di Regina Coeli.
Il 24 marzo, dunque, i militari della Polizia di Sicurezza della SD in servizio a Roma al cui comando vi erano i Capitani delle SS Erik Priebke e Karl Hass, radunarono 335 civili italiani nei pressi di una serie di grotte artificiali poste alla periferia di Roma, nei pressi della Via Ardeatine.
Quelle che vengono chiamate Fosse Ardeatine originariamente erano parte del sistema di catacombe cristiane e vennero scelte per eseguire la rappresaglia in segretezza e occultare i cadaveri delle vittime.
L’eccidio delle Fosse Ardeatine
Kappler e Priebke si accorsero che erano stati portati 5 prigionieri in più rispetto a quelli previsti ma Kappler decise comunque di ucciderli per non compromettere la segretezza dell’azione.
I prigionieri vennero condotti all’interno delle grotte con le mani legate e agli agenti incaricati dell’eccidio venne ordinato di occuparsi ciascuno di una vittima alla volta e di sparare a distanza ravvicinata, così da risparmiare tempo e munizioni.
All’orrore si unì altro orrore quando, mentre il massacro continuava e le vittime si accumulavano, i tedeschi obbligarono i condannati a inginocchiarsi sopra i cadaveri di coloro che erano già stati uccisi per non sprecare spazio utile.
Alle 20 finirono gli spari e i corpi dei 335 uomini assassinati furono raccolti in due mucchi al fondo delle gallerie. A quel punto ai militari del genio fu ordinato di chiudere l’entrata delle fosse facendola saltare con l’esplosivo.
Il 24 marzo 1944 alle ore 22:55 il comando tedesco diramò alla stampa italiana il comunicato dell’avvenuta rappresaglia contro i “comunisti-badogliani”.
Oggi nel luogo dell’eccidio sorge un monumento a imperitura memoria delle vittime innocenti che quel giorno persero la vita sotto i colpi di un nemico crudele e senza pietà.
I processi ai responsabili dell’eccidio
Dopo la fine della guerra le autorità processarono alcuni dei responsabili dell’Eccidio delle Fosse Ardeatine tra cui: il Generale Mälzer e il Generale von Mackensen, quest’ultimo seppure condannato a morte fu rilasciato qualche anno più tardi come avvenne per il Maresciallo Kesselring, anch’egli condannato a morte per aver incoraggiato l’uccisione di civili.
Nel 1948 un tribunale militare italiano condannò Herbert Kappler all’ergastolo per il ruolo avuto nell’eccidio ma la moglie riuscì a farlo fuggire e farlo rientrare in Germania. Le autorità dell’allora Repubblica Federale Tedesca si rifiutarono di estradare Kappler a causa delle sue condizioni di salute che lo portarono alla morte un anno dopo la fuga.
Erich Priebke riuscì a rifugiarsi in Argentina dove visse per quasi 50 anni da uomo libero, fino a quando nel 1994, durante un’intervista per l’ABC, Priebke parlò apertamente del proprio coinvolgimento nell’eccidio, evidenziando la più totale mancanza di rimorso per il massacro di cui fu artefice. Nel 1995 le autorità giudiziarie italiane e tedesche collaborarono per facilitare l’estradizione di Priebke in Italia.
Priebke e Hass furono, infine, processati in Italia nel 1997 e condannati a 15 e 10 anni. Tuttavia, a causa degli anni già trascorsi in prigione, Hass venne liberato immediatamente e la condanna di Priebke fu ridotta.
Il tentativo di quest’ultimo di appellarsi alla sentenza portò a un nuovo processo davanti alla corte d’appello militare che lo condannò all’ergastolo. Priebke morì 15 anni più tardi, nel 2013 mentre scontava la pena agli arresti domiciliari.