E’ uno di quei casi in grado di affascinare sia appassionati di storia e archeologia, sia gli amanti dei gialli. Un cranio umano risalente a più di 5.000 anni fa è stato ritrovato – da solo, senza altre ossa – in una grotta del Parco dei Gessi, a San Lazzaro di Savena, vicino a Bologna. Il teschio si trovava in cima ad un pozzo verticale alto 12 metri non comunicante con l’esterno. Un luogo ‘strano’, dunque, perché isolato e senza altre ossa associabili a quello. Ma a destare ancora di più la curiosità degli archeologi è stata una serie di tagli presenti in diversi punti del teschio, come si può vedere nella gallery fotografica scorrevole in alto a corredo dell’articolo.
Ad occuparsi di questo antichissimo ‘cold case‘ sono gli esperti dell’Università di Bologna, che hanno analizzato il reperto riuscendo così a risolvere, come degli investigatori da film di avventura, un intricato caso. I risultati – pubblicati oggi sulla rivista PLOS ONE – ha fatto luce su diverse questioni. Partiamo dall’identità della persone a cui quel teschio è appartenuto: si tratta di una giovane donna vissuta nell’Età del Rame (Eneolitico), il cui cadavere doveva essere stato manipolato con operazioni di pulizia dei tessuti molli, forse per un rituale funerario. Il corpo doveva trovarsi sul bordo di una dolina (conca chiusa, tipica dei pianori costituiti da rocce calcaree, ndr). Propria dalla dolina il cranio, spinto dall’acqua e dal fango, deve essere rotolato all’interno della grotta, fino al punto e in cui è stato ritrovato.
“Questa è la prima chiara evidenza di manipolazioni peri mortem di un cranio in epoca eneolitica in Italia documentata solo dallo studio osteologico, considerando che il contesto in cui è stato trovato il cranio è privo di qualunque altra evidenza antropologica e archeologica”, dice Maria Giovanna Belcastro, professoressa del Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna, che ha coordinato lo studio. “Si tratta di una scoperta che offre importanti indizi per ricostruire le pratiche funerarie delle popolazioni eneolitiche che vivevano nel territorio emiliano-romagnolo”.
Il cranio venne scoperto nel 2015, quando venne trovato 26 metri sotto il livello del suolo durante l’esplorazione di un nuovo ramo della Grotta “Marcel Loubens”: una cavità che si trova all’interno del Parco regionale dei Gessi bolognesi e calanchi dell’Abbadessa (a San Lazzaro di Savena, in provincia di Bologna), nell’area centrale di una grande depressione carsica chiamata Dolina dell’Inferno. Il reperto è stato rinvenuto in cima ad un pozzo verticale alto 12 metri, e solo nel 2017 è stato possibile recuperarlo, grazie ad una squadra del Gruppo Speleologico Bolognese (GBS-USB).
Il cranio è stato poi sottoposto ad approfonditi studi antropologici, per ricostruirne il profilo biologico ed esaminarne le dinamiche tafonomiche, testimonianza di processi peri mortem e post mortem che il cadavere ha subito, fino alla scheletrizzazione e al successivo rinvenimento dei resti. L’analisi al radiocarbonio ha permesso di datare il reperto in un periodo compreso tra il 3.630 e il 3.380 avanti Cristo, ovvero nella prima fase dell’Età del Rame in Italia settentrionale.
In base a quanto emerso, dunque, il cranio apparteneva ad una donna, giovane per i nostri canoni moderni, che aveva tra i 24 e i 35 anni. Non è nota la causa della sua morte, ma deve aver subito prolungati stress metabolici durante l’infanzia. Le carie presenti in alcuni molari suggeriscono una dieta ricca di carboidrati: un tratto ricorrente a partire dal Neolitico, quando furono introdotte le prime tecniche agricole.
Lo studio delle lesioni peri mortem sulla superficie del cranio ha suggerito che il cadavere (o forse solo la sua testa) doveva essere stato oggetto di manipolazioni intenzionali, effettuate probabilmente nell’ambito di un rituale funerario. Ma c’è anche un elemento in più: tra le lesioni individuate dagli studiosi, una sembra legata ad un intervento (forse chirurgico) quando la donna era ancora in vita, di cui rimane una piccola traccia attorno alla quale c’è un alone rossastro, forse dovuto all’applicazione di ocra, pigmento usato in ambito funerario già nel Paleolitico.
“Lo studio di questo reperto ci riporta ad una visione della vita e della morte molto diversa dalla nostra, propria invece delle comunità eneolitiche di quella zona”, spiega la professoressa Belcastro. “La manipolazione del cadavere o dello scheletro, che poteva prevedere anche attività cruente, e in particolare un’attenzione specifica per il cranio, è documentata fin dalla preistoria più lontana”.
Com’è arrivato il teschio nella grotta?
Come ha fatto il cranio a finire in una grotta, ad una profondità di 26 metri, in cima ad un alto condotto verticale, in assenza di altri reperti antropologici e archeologici nelle vicinanze? Per giungere ad una risposta, gli studiosi hanno preso in esame i sedimenti all’interno del cranio, le incrostazioni, le pigmentazioni e le lesioni post mortem presenti sulla sua superficie. Si è dunque arrivati ad ipotizzare che il cadavere della donna fosse stato inizialmente posto sul bordo della dolina oggi nota come Dolina dell’Inferno. Da qui, nel corso del tempo, le intemperie e i movimenti di acqua e fango avrebbero disperso i resti e fatto rotolare il cranio fino al fondo della dolina, dove è precipitato nella grotta, oggi nota come Grotta “Marcel Loubens”, da un antico ingresso di cui oggi non c’è più traccia.
La natura accidentale dell’evento è anche apparentemente confermata da alcune lesioni post mortem sul cranio. Il confronto con altri siti archeologici Eneolitici dell’Italia settentrionale ha permesso di interpretare il ritrovamento come probabile proveniente da un contesto funerario o rituale, in cui si praticava lo smembramento di cadavere (in particolare lo spostamento del cranio), spiegano gli autori dello studio.
Lo studio
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista PLOS ONEPLOS ONE con il titolo “Unveiling an odd fate after death: the isolated Eneolithic cranium discovered in the Marcel Loubens Cave (Bologna, Northern Italy)”. L’analisi del cranio è stata effettuata al Laboratorio di Antropologia fisica diretto dalla professoressa Maria Giovanna Belcastro, presso il Dipartimento di Scienze biologiche, geologiche e ambientali dell’Università di Bologna.
Allo studio hanno collaborato Annalisa Pietrobelli, Rita Sorrentino, Valentina Mariotti e Teresa Nicolosi del Laboratorio di Antropologia fisica, il geologo Jo de Waele e il paleontologo Daniele Scarponi del Dipartimento di Scienze biologiche geologiche e ambientali, Maria Pia Morigi e Matteo Bettuzzi (Dipartimento di Fisica e Astronomia) che hanno realizzato le indagini radiografiche e la restituzione digitale del reperto, Stefano Benazzi (Dipartimento Beni culturali) e Sahra Talamo (Dipartimento di Chimica “Giacomo Ciamician”). Hanno collaborato inoltre i chimici Pietro Baraldi e Paolo Zannini dell’Università di Modena e Reggio Emilia per lo studio delle tracce d’ocra, Monica Miari della Soprintendenza dell’Emilia-Romagna (settore Archeologia) e gli speleologi del Gruppo Speleologico Bolognese (GBS-USB).