La letalità del nuovo Coronavirus SARS-CoV-2 strettamente connessa al DNA di ognuno di noi: è la tesi avanzata dal professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto Farmacologico Mario Negri, nel suo intervento rilasciato in esclusiva per l’Osservatorio economico e sociale “Riparte l’Italia”.
“Ci sono due regioni nel genoma umano che aumenterebbero il rischio di ammalarsi di Covid in modo grave. Una di queste regioni – sul cromosoma 9 – ha a che fare coi gruppi sanguigni; secondo Andre Franke in un lavoro pubblicato a giugno sul New England Journal of Medicine il gruppo A si assocerebbe ad una malattia più severa (più bisogno di ossigeno o addirittura di ventilazione meccanica)“, spiega il dottor Remuzzi. “Ma c’è un’altra regione del nostro genoma ancora più interessante che avrebbe a che fare con la suscettibilità al Covid-19: si trova sul cromosoma 3 e ospita sei geni, uno di questi – o più di uno – condiziona le diverse manifestazioni della malattia. Una volta stabilita questa cosa, l’idea (geniale) di Hugo Zeberg e Svante Pääbo – che lavorano al Max Planck Institute in Germania e al Karolinska Institute a Stoccolma – è stata quella di chiedersi da dove mai venisse quel pezzo di cromosoma“.
Da questa considerazione emerge una “geografia” della letalità del Covid-19: “Gli studiosi si erano accorti che questa variante è comune nel Bangladesh – dove più del 60% della popolazione ha una copia di questo allele – ma anche nel sud dell’Asia dove almeno un terzo delle persone ha ereditato proprio questo segmento, che invece è molto meno frequente in Europa o nell’Asia dell’Est (e forse è proprio questo che ha attirato l’attenzione di Zeberg e Pääbo) e non c’è affatto in Africa“.
La ricerca sul DNA sta infatti fornendo nuove importanti evidenze: “Dopo aver studiato più di 3000 pazienti e 900.000 controlli c’è la conferma che il gruppo sanguigno ha un certo ruolo, ma marginale, mentre è proprio la regione sul cromosoma 3 di cui abbiamo parlato quella associata alla severità della malattia e al rischio di morirne. Quest’area viene ereditata insieme a una serie di varianti che si trovano proprio da quelle parti che formano quello che si chiama aplotipo di rischio fatto di quasi 50.000 nucleotidi (molecole organiche che rappresentano i costituenti fondamentali degli acidi nucleici, DNA e RNA). La cosa inaspettata e in un certo senso sensazionale di questa ricerca peraltro appena pubblicata su Nature è che delle 13 varianti che costituiscono l’aplotipo di rischio 11 (tutte presenti in forma omozigote, cioè su entrambe le copie del cromosoma 3) sono arrivate alla popolazione moderna dai Neanderthal in particolare dal genoma di Vindija 33.19 che risale a 50.000 anni fa ed è stato trovato in Croazia“.
“E che ci fa quell’aplotipo nei Neanderthal? – si chiede Remuzzi – Una volta forse li proteggeva dalle infezioni, adesso però che ci si trova di fronte a un virus nuovo, vien fuori l’altra faccia della medaglia, un eccesso di risposta immune non solo non ci protegge ma ci espone a una malattia più severa. Di sicuro quando i nostri antenati hanno incontrato i Neanderthal non pensavano minimamente che l’accoppiarsi fra loro avrebbe fatto morire noi 50.000 anni dopo!“.
Inoltre, prosegue Remuzzi: “C’è molto di più. Se tutto quello che abbiamo detto fosse vero, si potrebbe persino pensare che da questa regione del nostro DNA dipenda l’evoluzione della pandemia nel mondo. Ammettiamo che i portatori dell’aplotipo che viene da Neanderthal, siano di fatto quelli che sviluppano Covid grave e che muoiono più facilmente: a un certo punto, quel blocco di DNA sparirà per selezione negativa. A quel punto lì Covid-19 non sarà più una malattia così grave e la letalità (già adesso piuttosto bassa) lo sarà ancora di più“. “A questo punto si apre una grande prospettiva di ricerca: resta da capire per quale ragione quella porzione di cromosoma 3 che viene da Neanderthal ci espone al rischio di manifestazioni gravi di Covid-19. Qualche indizio l’abbiamo: uno dei geni dell’aplotipo di Neanderthal ha a che fare con la risposta immune, un altro con i meccanismi che il virus sfrutta per invadere le nostre cellule. Non sappiamo quale dei due gioca il ruolo più importante e non sappiamo nemmeno se sono quei due lì e basta. A forza di girarci intorno, Zeberg e Pääbo hanno provato a chiedersi quante potrebbero essere state finora le vittime del cromosoma di Neanderthal. Forse 100.000 al mondo – pensano loro – e potrebbero essere proprio quelli che non si sa perché muoiono: non sono ottantenni o più, non hanno le famose malattie associate (diabete, malattie del cuore, malattie respiratorie croniche), insomma sarebbe difficile spiegare perché muoiono se non fosse una predisposizione genetica. Qui si parte proprio da zero e come se non bastasse non sappiamo nemmeno se questo è un aplotipo di rischio solo per SARS-CoV2 o anche per altri Coronavirus e più in generale per altri patogeni. E ancora la presenza di questo aplotipo nei Neanderthal avrà avuto qualcosa a che fare con la loro suscettibilità a contrarre malattie virali o batteriche eventualmente più di quanto non sia successo all’Homo Sapiens? Non abbiamo una risposta nemmeno a questa domanda – conclude il prof. Remuzzi – ma è un’altra ipotesi che apre però prospettive di ricerca inimmaginabili fino a qualche mese fa“.