Con la data del 22 aprile 1915 si stabilisce convenzionalmente l’inizio della guerra chimica.
La società europea dell’Ottocento sfociò nel primo conflitto mondiale, in cui i governi e le industrie si sfidarono in una gara all’annientamento che portò alla realizzazione di nuovi sistemi d’arma come quelli in cui furono coinvolti in maniera crescente gli scienziati e che portarono alla guerra chimica.
Le premesse: la nascita della moderna industria chimica
La Prima Guerra Mondiale si giocò sul piano dal perfezionarsi dell’industrializzazione dei governi europei e portò alla nascita di nuovi e terrificanti sistemi d’arma come l’aeroplano, il sommergibile, il carro blindato e soprattutto le armi chimiche.
Questo fu possibile grazie al balzo compiuto dalla scienza e dalle sue capacità crescenti che presero il via durante la Seconda Rivoluzione Industriale che tra i settori maggiormente trainanti ebbe la ricerca e l’industria chimica.
La Germania fu alla testa di questo progresso chimico grazie a nuove industrie come la Basf e la Bayer che constavano di imponenti e moderni laboratori in cui operavano chimici con preparazione universitaria.
Tra di essi vi fu Fritz Haber che insieme al chimico Carl Bosch nel 1910 riuscì a sintetizzare l’ammoniaca a partire dai suoi componenti azoto e idrogeno. Questa scoperta segnò una svolta decisiva per lo sviluppo dell’industria chimica moderna e, ad esempio, da quel momento i fertilizzanti sintetici, in particolare i nitrati, si rivelarono indispensabili al superamento della crisi della produzione agricola determinata dall’embargo inglese imposto alle importazioni di fertilizzanti naturali dal Sud America.
Haber accolse con entusiasmo la possibilità di misurarsi sul campo della guerra collaborando con altri 92 scienziati, studiosi e artisti che firmarono nel 1914 il Manifesto dei Novantatre che negava l’aggressione della Germania al neutrale Belgio.
Haber si prestò ad applicare i progressi chimici nel mondo militare, soprattutto impiegando i nitrati per confezionare esplosivi: l’ammoniaca infatti consentiva di produrre anche acido nitrico che rappresentava la base degli esplosivi di nuova generazione.
Anche la Gran Bretagna non era nuova all’idea della guerra chimica, tanto che già qualche anno prima aveva condotto degli esperimenti con armi chimiche probabilmente già utilizzate durante la Seconda Guerra Boera.
L’esercito francese, invece, aveva attaccato le postazioni tedesche nell’agosto del 1914 provando ad utilizzare il bromuro di xilile, una sostanza irritante utilizzata dalla polizia parigina come gas lacrimogeno, o secondo alcuni storici l’etilbromoacetato, già testato prima della guerra.
Haber, tuttavia, aveva in mente un’arma ben più temibile che fosse in grado di abbattere il nemico e costringerlo alla resa, così si mise all’opera per convincere lo Stato Maggiore ad impiegare gas tossici.
Questi erano vietati dalla Convenzione dell’Aja, che ne limitava appunto l’uso negli armamenti, ed era stata firmata dalla Germania nel 1907. Tuttavia, sfruttando come pretesto l’utilizzo dei lacrimogeni da parte dei francesi, i tedeschi deferirono la responsabilità della mancata adesione alla convenzione.
Haber che era stato posto alla direzione del Kaiser Wilhelm Institute di Dahlem, sviluppò la produzione di fosgene e cloro. Sempre sotto la sua direzione nel 1915 fu creata la prima unità di Gastruppe, adducendo la pretestuosa motivazione umanitaria secondo la quale i gas avevano un valore tattico poiché in grado di bloccare i movimenti delle truppe e abbreviare la guerra risparmiando vite umane.
Inoltre, sebbene come già spiegato i trattati internazionali vietassero l’uso di armi chimiche un’altra scappatoia che i tedeschi usarono faceva un uso disinvolto di un cavillo di forma: il gas non poteva infatti essere sparato con proiettili d’artiglieria, tuttavia, nulla vietava di usare bombole aperte sul limitare del fronte nemico.
L’attacco di Ypres
Il pomeriggio del 22 aprile 1915 nei pressi di Ypres, una cittadina delle Fiandre si ebbe il primo utilizzo su larga scala di armi chimiche.
I tedeschi, vicino Langemarck, rilasciarono 5.730 bombole contenenti 168 tonnellate di gas di cloro che vennero lanciate su un fronte di circa 6 chilometri.
Nel corso dei primi soli 10 minuti furono circa 5.000 i morti dello schieramento alleato (in cui combattevano francesi, inglesi, canadesi e truppe coloniali algerine).
I 2 battaglioni di algerini inesperti e le 7 compagnie di volontari della riserva francese alla prima esperienza sul fronte erano del tutto ignari di quella nuova e terrificante minaccia e quando videro quella nube acre, di colore giallo-verde e alta come una muraglia, pensarono di trovarsi semplicemente davanti a fumo artificiale creato per occultare l’avanzamento del fronte di battaglia nemico.
Piuttosto che ordinare la ritirata gli ufficiali invitarono a serrare i ranghi e raddoppiarono la vigilanza della prima linea. I militari furono falcidiati esponenzialmente mentre la gialla nube tossica si spostava verso occidente. Secondo le parole di Sir John French, Comandante del corpo di spedizione britannico: «Gli uomini caddero in stato comatoso o in agonia».
Solo il Colonnello e ufficiale medico del 14° battaglione ebbe la prontezza di tentare un disperato tentativo di resistenza a quell’aggressione apocalittica e ordinò: «Presto, urinate su qualsiasi straccio e mettetevelo su naso e bocca». L’ammoniaca dell’urina era infatti in grado di neutralizzare il cloro e salvò più di una vita.
Fu questo il momento di rottura dal quale si susseguirono incessantemente nuovi esperimenti e vennero messi a punto nuovi sistemi di lancio e di dispersione di gas di volta in volta più letali.
Il 12 luglio 1917 si giunse all’utilizzo della terrificante iprite anche detta “gas mostarda” a causa del suo caratteristico odore, ancora una volta utilizzato a Ypres da cui prese il nome.
Questo gas aveva effetti vescicanti di potenza inaudita, aveva anche il vantaggio di permanere sulle divise e rendere inagibile il campo di battaglia per settimane penetrando persino nel sottosuolo. La caratteristica poi di protrarre la potenzialità offensiva per settimane, con le contaminazioni che si diffondevano celermente anche sui medici e sui barellieri, lo rese subito un’arma innovativa in una guerra che cercava nella tecnologia un aiuto per sfuggire all’immobilità della trincea.
La corsa all’armamento chimico
Dal 22 aprile 1915 cadde ogni riserva sull’uso delle armi chimiche e nell’immediato si scatenò una corsa all’armamento chimico di tutti quelli che erano allora i governi belligeranti: in Francia, si ricorse all’impegno di scienziati come il Nobel per la chimica del 1912, Victor Grignard, divenne il padre della produzione di fosgene.
Il fosgene, era un composto sintetizzato dal chimico inglese John Davy nel 1812 dalla miscelazione di cloro e ossido di carbonio. Si presentava con determinate caratteristiche: era incolore, estremamente tossico quanto aggressivo, possedeva un tipico odore di fieno e risultava circa tre volte più denso dell’aria.
Gli effetti erano ben più devastanti rispetto a quelli del cloro poiché il fosgene era altamente soffocante, urticante per gli occhi, ed aggressivo per le vie respiratorie in quanto provocava un rapido edema polmonare e la conseguente insufficienza respiratoria.
Dopo essere stato eletto dai francesi ad arma chimica scelta venne poi adottato dagli stessi tedeschi, sino a divenire il gas chimico maggiormente impiegato durante la Grande Guerra.
L’Italia non rimase indietro sul fronte della corsa all’armamento chimico e nel settembre 1915 istituì la Commissione Gas Asfissianti che venne affidata allo scienziato e professore Emanuele Paternò. Egli poté inoltre contare sul contributo di equipe di medici e chimici scelti.
Nonostante in Italia il dibattito della comunità scientifica tra interventisti e neutralisti fosse in pieno svolgimento, la commissione iniziò ugualmente i propri lavori. Tra i risultati più significativi vi fu lo studio di maschere antigas per i soldati italiani impegnati al fronte, ma anche la terribile scelta delle sostanze tossiche da impiegare contro il nemico, le quali vennero selezionate a seguito di studi e analisi sia in laboratorio che in trincea, e che furono usate con i proiettili potenziati al gas.
Il Ministero della Guerra italiano avviò senza esitazione la produzione in specifici stabilimenti, tuttavia, l’efficacia del fosgene venne messa in dubbio poiché il gas era ritenuto instabile e fortemente dipendente dalle condizioni meteorologiche che ne potevano inficiare il risultato bellico, soprattutto si teneva in considerazione la posizione delle trincee sulle altitudini in cui erano situate proprio quelle italiane.
Si calcola che la produzione italiana di gas durante la Prima Guerra Mondiale ammontò a circa 13.000 tonnellate, impiegate in particolare durante l’Undicesima battaglia dell’Isonzo (agosto 1917), l’ultima Battaglia sul Piave (giugno 1918) e la Battaglia della Bainsizza (Ottobre 1918).
All’alba del 29 giugno 1916 fu proprio sotto un attacco al fosgene che perirono 2.500 soldati italiani, non solo per le esalazioni dei gas, ma anche perché l’agguato, condotto da parte delle truppe austroungariche sul Monte San Michele, avvenne da parte di nemici che non solo erano dotati di maschere antigas ma anche di mazze ferrate che vennero usate per sgombrare la via da coloro che erano semplicemente intossicati e non erano caduti sul momento sotto l’effetto del gas.
Lo stesso sfondamento di Caporetto, riuscì in gran parte per merito dei circa 2000 proiettili al fosgene, lanciati contro gli ignari soldati italiani, nella conca di Plezzo, all’alba del 24 ottobre 1917.
Al fine di render più efficace questo gas furono gli stessi proiettili d’artiglieria ad essere dotati di agenti chimici e si valuta che addirittura un terzo di tutti i proiettili contenesse queste sostanze, un numero che oggi si calcola si sia aggirato intorno ai 66 milioni di proiettili, durante tutto il corso del primo conflitto bellico mondiale.
Al termine della Grande Guerra gli storici valutano che le vittime degli attacchi chimici siano state circa 850.000, ripartite più o meno fra 419.000 soldati russi, 190.000 per la Francia, 100.00 per l’Austria-Ungheria, 73.000 per gli Stati Uniti, 60.000 per l’Italia.
Significative furono anche le pesanti eredità ambientali che furono lasciate dalle armi chimiche e i rischi che ancora oggi, a distanza di un secolo, sussistono in presenza di residui bellici pericolosi disseminati in siti ancora sconosciuti.
Gli sviluppi successivi della corsa all’armamento chimico videro risvolti drammatici come l’uso in Giappone e Cina, nonché l’uso del terribile Agente Orange irrorato dagli Stati Uniti durante l’aggressione della Guerra del Vietnam e più recentemente in Sira e Iraq.
I trattati internazionali proibiscono già dal 1925 con il Protocollo di Ginevra l’utilizzo di armi chimiche e batteriologiche, tuttavia, non ne veniva proibita la produzione, lo stoccaggio o il trasferimento né si prevedeva che fossero effettuati dei controlli.
Del 13 gennaio 1993 è la Chemical Weapons Convention che proibisce qualsiasi attività rivolta a sviluppo, produzione, acquisizione, detenzione, conservazione, trasferimento e uso di armi chimiche e dei materiali ad esse collegati, convenzione che è stata ratificata da quasi la totalità dei paesi del mondo.