Il COVID-19 danneggia un importante “centro di controllo” cerebrale

“Il fatto che vediamo anomalie nelle parti del cervello associate alla respirazione suggerisce fortemente che i sintomi di lunga durata sono un effetto dell'infiammazione nel tronco encefalico dopo l'infezione da COVID-19”
MeteoWeb

Le conseguenze del COVID-19 si rivelano più complesse di quanto previsto, estendendosi oltre l’apparato respiratorio e includendo il sistema nervoso centrale, secondo una nuova ricerca basata su potenti scansioni MRI. Grazie a tecniche di risonanza magnetica avanzate, un team di neuroscienziati ha scoperto che il COVID-19 può danneggiare il tronco encefalico, il fulcro di alcune delle principali funzioni vitali come il controllo della respirazione e della regolazione della pressione arteriosa. Questa scoperta potrebbe rispondere a molte domande irrisolte sui sintomi persistenti che affliggono alcuni pazienti anche mesi dopo l’infezione.

Il ruolo del tronco encefalico: anatomia e funzioni vitali

Il tronco encefalico rappresenta una delle strutture più primitive del cervello umano e regola le funzioni corporee di base. Composto da tre regioni principali — mesencefalo, ponte e midollo allungato —, il tronco encefalico funge da connettore tra il cervello e il midollo spinale e gestisce attività involontarie fondamentali, come la respirazione, il battito cardiaco e la regolazione della pressione sanguigna. Il tronco encefalico è inoltre cruciale per il controllo di riflessi come la deglutizione e la pupillodilatazione, oltre a rivestire un ruolo nel mantenimento dello stato di veglia e nella regolazione del sonno.

L’importanza di questa struttura rende particolarmente allarmanti i danni che il COVID-19 sembra provocare su di essa. Gli effetti di infiammazioni persistenti in quest’area potrebbero spiegare sintomi come affaticamento cronico, dolori muscolari, ansia, e problemi di respirazione che persistono in molti pazienti dopo la fase acuta dell’infezione. Un approfondimento su come il COVID-19 attacca queste strutture potrebbe portare a una comprensione più profonda e articolata del fenomeno del long COVID, ancora oggi poco compreso dalla comunità scientifica.

L’importanza delle scansioni ad alta potenza: l’uso di MRI a 7 Tesla

Una delle barriere più grandi nella comprensione dei danni cerebrali causati dal COVID-19 risiede nella difficoltà di visualizzare in dettaglio aree piccole e delicate come il tronco encefalico. Gli scanner MRI comunemente utilizzati negli ospedali operano con una potenza magnetica di 1,5 o 3 Tesla, sufficiente per diagnosi neurologiche standard, ma non per rivelare infiammazioni microscopiche in aree profonde come il tronco encefalico. Per questo studio, i ricercatori hanno sfruttato due rari scanner MRI da 7 Tesla situati presso le Università di Cambridge e Oxford. La potenza di questi dispositivi permette di ottenere immagini ad altissima risoluzione e di analizzare dettagliatamente le strutture neuronali, rivelando la presenza di anomalie inaccessibili con tecniche meno potenti.

Secondo la dott.ssa Catarina Rua, prima autrice dello studio: “Le cose che accadono all’interno e intorno al tronco encefalico sono vitali per la qualità della vita, ma era stato impossibile scansionare l’infiammazione dei nuclei del tronco encefalico nelle persone viventi, a causa delle loro piccole dimensioni e della loro posizione difficile.” La capacità di visualizzare queste aree in modo così dettagliato apre nuove prospettive non solo per la ricerca sui postumi del COVID-19, ma anche per altre patologie neurologiche in cui il tronco encefalico potrebbe giocare un ruolo chiave.

Lo studio: metodi, campione e osservazioni

Il campione della ricerca ha incluso 31 pazienti, tutti ricoverati in ospedale con COVID-19 durante le prime fasi della pandemia, prima della disponibilità dei vaccini. Questi pazienti hanno successivamente manifestato una serie di sintomi persistenti, che includono affaticamento, difficoltà respiratorie, dolore toracico e problemi cognitivi. Utilizzando le avanzate tecniche MRI, i ricercatori hanno osservato, circa sei mesi dopo la dimissione, evidenti segnali di infiammazione nel midollo allungato, nel ponte e nel mesencefalo, tutte aree strettamente collegate alla gestione delle funzioni respiratorie e cardiache.

I ricercatori hanno impiegato una tecnica chiamata Susceptibility Mapping Quantification (QSM), che permette di mappare le variazioni nei livelli di ferro e altri metalli nel tessuto cerebrale. Livelli anomali di ferro possono indicare processi infiammatori o danni cellulari, fornendo una mappa dettagliata delle aree affette. Le proiezioni in 3D delle mappe QSM hanno evidenziato chiaramente anomalie nel tronco encefalico dei pazienti post-COVID rispetto a un gruppo di controllo sano. In particolare, l’aumento di X nel midollo e nel ponte ha messo in luce differenze significative rispetto al gruppo sano, indicando la presenza di infiammazioni.

Il fatto che vediamo anomalie nelle parti del cervello associate alla respirazione suggerisce fortemente che i sintomi di lunga durata sono un effetto dell’infiammazione nel tronco encefalico dopo l’infezione da COVID-19”, ha spiegato Rua. Gli scienziati hanno inoltre riscontrato che i pazienti con risposte immunitarie più forti durante la fase acuta dell’infezione mostravano anche anomalie cerebrali più significative e sintomi mentali come ansia e depressione, suggerendo un potenziale collegamento tra risposta immunitaria e danni cerebrali persistenti.

Il legame tra infiammazione e sintomi psicologici

Uno degli aspetti più innovativi di questo studio riguarda la connessione tra salute mentale e salute fisica, in particolare nel contesto di un’infiammazione cerebrale. Il professor James Rowe, co-autore della ricerca, ha osservato che “La salute mentale è intimamente connessa alla salute del cervello e i pazienti con la risposta immunitaria più marcata hanno anche mostrato livelli più elevati di depressione e ansia.” L’infiammazione nel tronco encefalico potrebbe quindi avere un ruolo nelle manifestazioni psicologiche del long COVID, in cui molti pazienti riportano sintomi come ansia persistente, depressione e affaticamento mentale.

Secondo la teoria neuroinfiammatoria, il sistema immunitario reagisce all’infezione attivando una risposta che produce infiammazione anche nel cervello, la quale può danneggiare strutture neurali e alterare la regolazione delle emozioni e del comportamento. L’infiammazione del tronco encefalico, infatti, potrebbe alterare i circuiti che connettono il cervello alla corteccia prefrontale, coinvolta nella regolazione dell’umore e della motivazione, e all’ippocampo, cruciale per la memoria e l’elaborazione emotiva.

Limiti dello studio e possibili applicazioni future

Sebbene il campione sia relativamente piccolo, questo studio rappresenta un’importante conferma empirica di quanto osservato in esami post-mortem durante i primi mesi della pandemia. In quell’epoca, infatti, gli anatomopatologi avevano riscontrato infiammazioni estese nel tronco encefalico di pazienti deceduti per COVID-19 grave, e le nuove osservazioni MRI sembrano confermare la presenza di tali infiammazioni anche nei pazienti sopravvissuti e guariti dalla fase acuta dell’infezione. La possibilità di utilizzare scanner da 7 Tesla ha fornito una prospettiva senza precedenti su questi danni, una tecnologia che, secondo gli autori, potrebbe essere applicata in futuro a molte altre patologie neurologiche, come la sclerosi multipla e il morbo di Parkinson, che interessano il sistema nervoso centrale.

Rua ha sottolineato l’importanza di un simile avanzamento tecnico, affermando: “Sono rimasto davvero colpito da come, nella foga del momento, la collaborazione tra molti ricercatori diversi si sia riunita in modo così efficace”. La sinergia tra team scientifici diversi ha permesso di mettere a punto rapidamente le nuove tecniche e analizzare i dati in un periodo in cui le conoscenze sugli effetti del COVID-19 erano ancora limitate.

Una nuova prospettiva sui sintomi persistenti del long COVID

Le implicazioni di questo studio pubblicato sulla rivista Brain sono significative non solo per i pazienti COVID-19, ma anche per tutti i soggetti affetti da patologie che causano neuroinfiammazioni. Questa ricerca pone l’accento sull’importanza di un approccio multidisciplinare per comprendere e trattare i sintomi persistenti legati alle infezioni virali. Grazie all’impiego di avanzate tecniche MRI e alla collaborazione tra neuroscienziati, immunologi e esperti di imaging, questo studio segna un passo fondamentale nella comprensione di come il COVID-19 influenzi il sistema nervoso centrale e apre nuove possibilità per trattamenti che possano alleviare i sintomi del long COVID.

Inoltre, i risultati evidenziano quanto sia cruciale monitorare attentamente i pazienti COVID-19, anche dopo la guarigione apparente, per prevenire effetti a lungo termine sul cervello. Gli studiosi sperano che, grazie alle nuove tecnologie di imaging, sarà possibile prevenire e trattare condizioni neurologiche simili, migliorando la qualità di vita dei pazienti e promuovendo un recupero integrale che includa sia la salute fisica che quella mentale.

Condividi