“Abbiamo un nome” per il Coronavirus, è COVID- 19. Lo ha annunciato il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in un briefing di aggiornamento con la stampa a Ginevra.
“Abbiamo dovuto trovare un nome che non si riferisse a una posizione geografica, a un animale, o ad un individuo o un gruppo di persone. Un nome che sia anche pronunciabile e correlato alla malattia”, ha proseguito il diretto dell’Oms. Avere un nome per la malattia da coronavirus “è importante per impedire l’uso di altri sostantivi che possono essere inaccurati o stigmatizzanti – ha aggiunto Tedros Adhanom Ghebreyesus – Ci fornisce anche un formato standard da utilizzare per eventuali futuri focolai di coronavirus”.
Perché questo nome?
Il nome è l’acronimo di Co (corona); Vi (virus); D (‘disease’, malattia) e 19 (l’anno di identificazione del virus). E’ un nome ‘politically correct’ quello dato al coronavirus di origine cinese che sta allarmando il mondo. La denominazione ufficiale non è affatto causale ma rispetta precise linee guida, una sorta di ‘galateo della scienza’, che l’Oms ha sentito il bisogno di elaborare nel 2015, dopo che alcuni nomi legati a epidemie avevano generato non pochi problemi. Avevano cioè prodotto “un contraccolpo contro membri di particolari comunità religiose o etniche, creato barriere ingiustificate ai viaggi, al commercio e innescato inutili macellazioni di animali alimentari”, come ebbe a denunciare l’agenzia sanitaria delle Nazioni Unite.
In passato, infatti, numerosi virus avevano preso il nome dal luogo in cui si erano originati o dalla regione in cui erano stati identificati per la prima volta: ad esempio la Mers, che sta per Sindrome respiratoria del Medio Oriente; Ebola che prende il nome da un fiume della Repubblica Democratica del Congo; la malattia di Lyme che si rifà a una città del Connecticut. Da qui le raccomandazioni stilate dall’Oms: “Il nome da utilizzare per riferirsi a una nuova malattia deve consistere in termini descrittivi generici, in base ai sintomi, a coloro che colpisce, alla sua gravità o stagionalità”.
Mentre vanno evitati, appunto, nomi che includono aree geografiche (per esempio influenza spagnola, febbre della Rift Valley), nomi di persone (come Malattia di Creutzfeldt-Jakob, malattia di Chagas), specie di animali o alimenti (influenza suina, influenza aviaria), riferimenti culturali, di popolazione, industriali o professionali legionari) e termini che incitano alla paura indebita (quali sconosciuta, misteriosa, fatale, epidemia).
“Il primo vaccino potrebbe essere pronto in 18 mesi”
“Il primo vaccino per il Coronavirus potrebbe essere pronto in 18 mesi”. Lo ha detto il direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanita’ in un briefing di aggiornamento con la stampa a Ginevra. “Dobbiamo perciò fare di tutto e usare le armi a nostra disposizione per combattere il virus“, ha aggiunto.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ritiene che vi sia una “possibilità realistica” di fermare il virus Covid-19. Lo ha sottolineato oggi in un briefing con la stampa a Ginevra. “Se investiamo adesso, abbiamo una possibilità realistica di fermare questa epidemia“, ha detto il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus. “Non dobbiamo consentire a questo virus di avere spazio”, ha aggiunto, spiegando che non si può “sprecare l’opportunità”.
Iss: “3 mesi per il candidato vaccino, ma almeno un anno per usarlo”
E’ possibile che entro due o tre mesi si abbiano dei candidati vaccini per il nuovo coronavirus pronti per i primi test sull’uomo, ma difficilmente prima di un anno potranno essere impiegati ‘sul campo’. Lo precisa Gianni Rezza, direttore del Dipartimento di malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità (Iss), che sta partecipando al meeting convocato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) oggi e domani a Ginevra dedicato proprio allo sviluppo rapido di terapie, vaccini e test diagnostici per affrontare l’epidemia in corso.
“Meno di un anno è molto improbabile – spiega – ci sono dei passaggi necessari per garantire la sicurezza del vaccino, oltre che la sua efficacia. Una volta superati i test sugli animali si passa alla fase 1, che serve a verificare, in genere su pochi soggetti sani, che il vaccino non dia effetti collaterali gravi. Poi c’è la fase 2, che valuta la risposta immunitaria, e infine la fase 3 che è quella che determina l’efficacia. In casi di emergenza le agenzie regolatorie potrebbero ‘accontentarsi’ della fase 2 prima di autorizzare l’uso, ma comunque ci sono dei tempi minimi da rispettare. Anche nel caso del vaccino per Ebola, che è stato messo a punto a tempo di record, ci è voluto comunque un anno. Bisognerà anche valutare l’andamento dell’epidemia, per valutare il rapporto costi-benefici di uno sviluppo accelerato”. Al momento ci sono diversi gruppi nel mondo che lavorano a un vaccino.
“Allo studio ci sono sia l’utilizzo di virus vettori animali non replicanti, oppure vaccini a Rna e la reverse vaccinology. Negli Usa i National Institutes of Health (Nih) sta lavorando su diverse piattaforme, e sono molto avanti. Ci sono anche ricercatori russi in campo, e naturalmente anche quelli cinesi. Anche l’Italia sta facendo la sua parte, a Pomezia, grazie a un accordo tra Advent Irbm e Oxford University. In questo caso si utilizza un virus vettore, un adenovirus di scimmia già utilizzato per un vaccino anti-Ebola”