Coronavirus, parla l’anestesista che a Codogno ha scoperto il paziente 1: “Ecco come ho intuito che Mattia era stato contagiato”

Pensare all'impossibile: è questo quello che ha fatto Annalisa Malara quando ha visitato Mattia, il paziente 1 di Codogno affetto da Covid-19
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Pensare all’impossibile: è questo quello che ha fatto Annalisa Malara, anestesista 38enne di Cremona, quando ha visitato Mattia. Il 38enne di Codogno, quello che sarebbe poi diventato noto a tutti come paziente 1 affetto daCoronavirus, si era presentato in Ospedale per la seconda volta, con febbre e con una polmonite che stentava a passare, nonostante le cure. E allora lei ha avuto un’intuizione che andava oltre il classico protocollo, come racconta in un’intervista a La Repubblica: “Quando un malato non risponde alle cure normali, all’università mi hanno insegnato a non ignorare l’ipotesi peggiore. Mattia si è presentato con una polmonite leggera, ma resistente ad ogni terapia nota. Ho pensato che anch’io, per aiutarlo, dovevo cercare qualcosa di impossibile. Mi sono trovata al posto giusto nel momento giusto, o forse in quello sbagliato nel momento sbagliato”

Annalisa racconta delle prime ore: l’apparente influenza, il principio di polmonite, l’aggravarsi della situazione, tutto in pochi giorni. “Mattia dal 14 febbraio aveva la solita influenza, che però non passava. Il 18 è venuto in pronto soccorso a Codogno e le lastre hanno evidenziato una leggera polmonite. Il profilo non autorizzava un ricovero coatto e lui ha preferito tornare a casa. Questione di poche ore: il 19 notte è rientrato e quella polmonite era già gravissima”.

Annalisa Malara

Sembrava una banale influenza, ma non era affatto così e la rapidità con cui sono peggiorate le condizioni di Mattia ha sorpreso tutti, ma anche fatto riflettere. “Tutti siamo stati sorpresi da rapidità e gravità dell’attacco virale. Quello che vedevo era impossibile. Per la prima volta farmaci e cure risultavano inefficaci su una polmonite apparentemente banale. Il mio dovere era guarire quel malato. Per esclusione ho concluso che se il noto falliva, non mi restava che entrare nell’ignoto. Questo è il passo falso che ha tradito il coronavirus. Giovedì 20, a metà mattina, ho pensato che a quel punto l’impossibile non poteva più essere escluso”.

A questo punto l’intuizione: poteva essere coronavirus. E quindi la prima azione è stata quella di cercare conferma ricostruendo gli ultimi 15 giorni di Mattia, insieme alla moglie: “Ho chiesto un’altra volta alla moglie se Mattia avesse avuto rapporti riconducibili alla Cina. Le è venuta in mente la cena con un collega, quello poi risultato negativo”.

Foto di Emanuele Cremaschi / Getty Images

Da lì la richiesta del tampone per verificare se si trattasse o meno di coronavirus, forzando il classico protocollo. Considerando infatti i sintomi e i contatti di Mattia, il protocollo non giustificava infatti la richiesta, “Ho dovuto chiedere l’autorizzazione all’azienda sanitaria. I protocolli italiani non lo giustificavano. Mi è stato detto che se lo ritenevo necessario e me ne assumevo la responsabilità, potevo farlo”.

Annalisa quindi ha scelto di seguire la propria intuizione, forzando il protocollo e prendendosi la responsabilità della scelta: “Verso le 12.30 del 20 gennaio i miei colleghi ed io abbiamo scelto di fare qualcosa che la prassi non prevedeva. L’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha permesso a questo virus di girare indisturbato per settimane”.

Poi l’escalation che tutti conosciamo: “Il tampone di Mattia è partito per l’ospedale Sacco di Milano prima delle 13 di giovedì. La telefonata che confermava il Covid-19 mi è arrivata poco dopo le 20.30. Nel frattempo io e i tre infermieri del reparto abbiamo indossato le protezioni suggerite per il coronavirus. Questo eccesso di prudenza ci ha salvato. Nessuno di noi è stato contagiato. Siamo usciti oggi (ieri, ndr) dalla quarantena: chiusi in ospedale abbiamo continuato a curare i malati anche in queste due settimane”.

Una testimonianza che fa riflettere. Quanto vale l’intuizione? Quanto conta l’etica e il desiderio di vincere la battaglia contro questo temibile nemico? Davvero tanto, perché “la fortuna, se insisti, ti aiuta. Se una persona sta male, una causa c’è. Se le cure note non funzionano, devi tentare quelle che non conosci. Il Covid-19 non aveva messo in conto che l’essere umano, pur di sopravvivere, non si rassegna.”

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