“La notte aprivo la finestra per respirare. Fare entrare aria nella stanza era l’unico modo per darmi un po’ di sollievo”. Il racconto shock di chi ha vissuto l’incubo Coronavirus in casa, senza altro aiuto che le telefonate del proprio medico di base.
A parlare all’Ansa è Antonio Bufano, 41enne originario di Cosenza e assistente tecnico informatico in un istituto alberghiero di Brescia. Adesso va meglio, la febbre è passata dopo ben 16 giorni, anche se ancora non sta bene: debolezza, vertigini, inappetenza, sensazione di ossa rotte, la malattia sta facendo il suo decorso.
“Inizio ad avere i primi sintomi il 5 marzo – è il suo racconto al telefono – mi facevano male le articolazioni, avevo brividi di freddo e, dopo due giorni, un dolore persistente al petto, come se mi avessero preso a pugni sui polmoni”. E’ a quel punto che telefona alla guardia medica. “Mi dicono che non è niente di grave, e di prendere il paracetamolo se le sale la temperatura”. Ma la sua salute non migliora, anzi. E pochi giorni dopo si ammalano anche sua moglie, 43 anni, e anche i suoi due bambini, di 7 e 10 anni. I piccoli per fortuna hanno sintomi lievi, la tosse e qualche linea di febbre.
“Ho chiamato 112 – sono le sue parole – e dopo 45 minuti di attesa prendono tutti i miei dati e mi dicono che ho i sintomi del coronavirus. Anche il giorno dopo, nel pomeriggio, mi telefonano e mi dicono: state in quarantena e non uscite”. L’informatico implora che gli venga fatto il tampone, spiega che ha due figli piccoli, è terrorizzato. Ma dall’altra parte del telefono la risposta è sempre la stessa: “Non siete gli unici che stanno male, non possiamo venire lì”.
La sensazione, dice, “è che i medici del pronto soccorso non mi credano del tutto“. “Mi dicevano che parlavo bene, che non ero affannato. E di chiamare il 118 se proprio non potevo respirare. Ho risposto: ma come faccio, se mi viene un infarto?”. Per le due settimane successive Antonio e la sua famiglia non ricevono nessuna visita, nessuna telefonata, a parte quella del proprio medico di base.
“Non ho più riprovato col 112, perché ero demoralizzato. Mi sono dovuto organizzare con i bimbi, li abbiamo isolati in una stanza, e abbiamo iniziato a mangiare in orari diversi. Per fortuna sono molto tranquilli”. Dopo 13 giorni, anche sua moglie inizia a stare meglio. Ma il ricordo di quest’esperienza sarà indelebile per entrambi. “Abbiamo vissuto un incubo. Tu la sera vai a letto e ti dici: ‘domani mi aiuteranno. E invece l’aiuto non arriva mai’. La conclusione della vicenda, per Antonio è amara. “La realtà è diversa da come la raccontano in televisione. Mi sono sentito un cittadino di serie B, secondo me questa è discriminazione sociale”.