Sarebbero circa un milione i casi di infezione da SarsCoV2 in Italia: è la stima condivisa dal fisico Federico Ricci Tersenghi, dell’Università Sapienza di Roma, e dall’infettivologo Massimo Galli, dell’ospedale Sacco di Milano. Lo hanno detto nel dibattito organizzato dalla pagina Facebook ‘Coronavirus – Dati e analisi scientifiche’.
“E’ inutile dire che l’Italia ha il tasso letalità più alto del mondo, in realtà – ha detto Galli – ha il denominatore più sballato del mondo: manca il 90% di chi ha l’infezione. Circa un milione l’ha incontrata”.
“La stima dei casi di infezione da coronavirus in Italia indica un numero di 8-10 volte superiore rispetto a quelli notificati e questo – ha rilevato Ricci Tersenghi – significa che oltre un milione di persone sono state a contatto con il virus: è importante conoscere questo numero per poter organizzare la strategia della fase 2. Per questo – ha aggiunto – è importante fare i test degli anticorpi per sapere chi nell’ultimo mese è stato in contatto con il coronavirus”.
Ci sono nuove stime anche per quanto riguarda i decessi: “poiché non è stato fatto il tampone a tutti i deceduti, in quanto si sono dovute stabilire delle priorità, i dati ci danno un’immagine distorta della realtà“, ha osservato Ricci Tersenghi. Per correggere le distorsioni, ha spiegato, è stato necessario ricorrere ai dati Istat sulla mortalità: “a Nembro, per esempio, il confronto dei dati relativi all’andamento dei decessi negli anni e quelli forniti dal sindaco sui decessi per coronavirus notificati ha permesso di individuare un eccesso di decessi e di stimare che quelli per Covid-19 sono stati circa quattro volte più numerosi di quelli dichiarati.”
Una situazione analoga è emersa analizzando i dati sui decessi nelle regioni a confronto con quelli Istat: una parte dei decessi in eccesso dovuti all’epidemia risulta non certificata, mentre in generale i dati indicano che “a cento morti dovute direttamente alla Covid ne vanno sommate altrettante, indirettamente legate all’epidemia: si tratta di decessi dovuti a normali patologie che non e’ stato possibile trattare in quanto il servizio sanitario era sottoposto a un grande stress”.
Non si può programmare la fase 2 senza colmare l’attuale “carenza dispositivi diagnostici”, ha detto l’infettivologo Massimo Galli dell’ospedale Sacco Milano. “Dobbiamo interrogarci sul perché l’Italia non abbia messo in piedi linee di diagnostica per passare alla fase 2, oggi prematura, ma da programmare altrimenti si rischia di spalmare la ripresa in un tempo infinito o anticipata, con il rischio di nuovi focolai”.
Quella dell’Italia, ha proseguito Galli, “è stata una scelta sciagurata ma obbligata perché siamo riusciti a moltiplicare i posti di terapia intensiva, ma non le linee diagnostiche”. Di conseguenza “in vista della fase 2 ci troviamo ad avere una carenza di dispositivi diagnostici“, ha proseguito riferendosi anche ai test sierologici rapidi e poco costosi. Fare questi ultimi, ha osservato, non significherà però non fare il tampone perché avere gli anticorpi IgG, ossia le immunoglobuline G che possono indicare se l’infezione è avvenuta un mese prima, non significa essere guariti, ha detto ancora Galli, e resta il rischio che le persone possano ancora trasmettere il virus.