Più che “trasportare” e quindi diffondere il coronavirus responsabile della sindrome Covid-19, lo smog potrebbe avere un ruolo di “amplificatore“, potrebbe cioè peggiorare l’infiammazione causata dal virus. E’ quanto emerge da un documento dei ricercatori delle Agenzie regionali di protezione per l’ambiente (Arpa) di Emilia-Romagna e Marche, dell’Università Politecnica delle Marche e dell’ateneo di Bologna. Pubblicato nell’archivio della rivista Epidemiologia e Prevenzione, il documento analizza gli studi fin qui disponibili sul rapporto tra inquinamento atmosferico e diffusione del Sars-CoV-2.
Secondo i ricercatori è possibile “dire che allo stato attuale delle conoscenze, le evidenze su un possibile ruolo del particolato atmosferico nella diffusione del Sars-CoV-2 siano decisamente limitate e frammentarie”.“Possibile” invece “ipotizzare” una “interazione molecolare” tra polveri sottili e Sars-CoV-2 “che conferma la possibile azione di cofattore del Pm nel sostenere il processo di infiammazione indotto dal virus“.
“L’ipotesi che vogliamo approfondire e studiare è se ci sia un ‘gioco di squadra’ tra lo smog e il Sars-CoV2“, spiega all’ANSA Annamaria Colacci, biologa genetista e tossicologa, responsabile per ambiente, prevenzione e salute dell’Arpa Emilia-Romagna, tra i ricercatori firmatari del report. “Studiando i meccanismi di azione di smog e coronavirus e confrontandoli possiamo capire se lavorano entrambi nel sostenere un’infiammazione, che quindi diventa più grave come se coronavirus e polveri sottili lavorassero per uno stesso obiettivo”.
“Sulla base della nostra mini-rassegna” della letteratura scientifica “escludiamo che il particolato possa trasportare virus ‘vitale’, cioè capace ancora di infettare”. Mentre l’ipotesi “che ci rimane e che stiamo cercando di comprendere meglio” è proprio “quella di capire se ci sia qualcosa in comune tra le interazioni molecolari col nostro organismo delle polveri sottili e quelle del Sars-CoV2”.
“La nostra ‘fase 2’ è già cominciata – aggiunge la ricercatrice – e consiste nel tentativo di dare risposta a questa e ad altre tre domande: verificare l’ipotesi intrigante se ci siano condizioni meteorologiche che possano favorire la diffusione del Sars-CoV2, come temperatura e umidità; se effettivamente anche le ‘droplet’ più piccole possano portare a distanza una certa carica vitale; in ultimo un rapporto epidemiologico che faccia capire se ci sia o meno un’associazione tra livello di inquinamento e patologia”.
“Ci vogliono tempo e metodo – continua Colacci – Dei quattro studi il primo, quello sulle interazioni molecolari, è di fatto già partito. Stiamo analizzando dati da qualche settimana, anche grazie a giovani tirocinanti e studenti universitari che lavorano con grandissimo entusiasmo”.