“Il criterio del doppio tampone negativo per poter dichiarare guarito un malato di COVID-19 in Italia deve cambiare. Troppe persone attendono mesi in una inutile quarantena, e abbiamo prova che il timore di venire isolati così a lungo sia un pericoloso disincentivo alla segnalazione dei propri sintomi per chi si ammala ora.
Lo diciamo da tempo, ma è arrivato il momento per pretendere che anche il nostro Paese adotti una regola più ragionevole. – si legge nella consueta analisi del dottor Paolo Spada pubblicata sul profilo Facebook Pillole di Ottimismo – In Italia il Paziente affetto da COVID-19, che sia stato sintomatico o no, resta a tutt’oggi ufficialmente malato, e considerato contagioso, finché per due volte consecutive l’analisi del tampone nasofaringeo non dia esito negativo. Questo criterio, che inizialmente era stato dettato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), è stato poi cambiato progressivamente in tutti i Paesi, e infine dall’OMS stessa, in base alla crescente e consolidata evidenza scientifica, secondo la quale il periodo di contagiosità si limita in realtà ai primi giorni, e che la prolungata positività del tampone identifica solo tracce di materiale genetico virale, non virus integro, attivo, in replicazione, capace cioè di trasmettere l’infezione.”
“A distanza di sei mesi, possiamo ormai dirci del tutto consapevoli di quanto avviene nel soggetto infettato da SARS-CoV-2, almeno per quanto attiene il rischio di contagio, che inizia circa 48 ore prima della comparsa di sintomi, è massimo nei primi giorni, e poi cala rapidamente, per annullarsi entro dieci giorni. Appare d’altronde sempre più evidente che la positività della analisi PCR del tampone resti frequentemente positiva per molte settimane, fino a oltre 4 mesi dalla malattia. Come ha dichiarato pochi giorni fa anche il CDC statunitense, per i pazienti con malattia lieve o moderata, il virus attivo e in replicazione non si isola più oltre 10 giorni dall’insorgenza dei sintomi. Questo vale anche nell’88% dei casi di malattia severa, complicata da immunodepressione, in cui si segnalano rari casi di isolamento virale oltre quella soglia, ma comunque non oltre i 20 giorni.
Ampi studi epidemiologici hanno confermato i rilievi microbiologici: la persistente positività al tampone dopo la guarigione clinica non è correlata ad alcuna trasmissione del virus. Si verifica semmai frequentemente che la negatività sia seguita da nuova positività, per via della alta sensibilità della reazione PCR al materiale genetico virale residuo presente nelle mucose del paziente, e della disomogeneità di prelievo del tampone. Ma in nessun caso di ripositivizzazione è stata trovata evidenza di infezione attiva, né di contagiosità.
Riporto in fondo all’articolo una lunga serie di riferimenti scientifici, per chi volesse approfondire.”
PERCHE’ CAMBIARE I CRITERI
“Quando oltre un mese fa l’OMS . – scrive il dottor Paolo Spada pubblicata sul profilo Facebook Pillole di Ottimismo – ha ufficialmente ridotto a 10 giorni il periodo di malattia per COVID-19 (più tre giorni senza sintomi, nel caso ve ne fossero), i più importanti Paesi d’Europa avevano già adottato analoghi criteri clinici per dichiarare guarito il paziente, abbandonando l’uso del tampone di controllo. La ragione, del tutto evidente, è che mantenere in isolamento forzato un paziente non più contagioso non è di alcuna utilità, né per il paziente (che anzi si gioverebbe di tornare attivo), né per la collettività, che ha bisogno di riprendere le attività lavorative e non si può permettere di rinunciare, senza alcuna plausibile motivazione, al contributo di migliaia di persone. In Italia, nonostante il contagio sia ormai ridottissimo, più di 12.000 persone sono ancora ufficialmente malate, malgrado la stragrande maggioranza di queste abbia abbondantemente superato la malattia.
Più passa il tempo, e più vediamo casi di positività al tampone che richiedono mesi per risolversi. Pazienti di tutte le età, inclusi bambini, segregati per un principio di “massima cautela” che non trova più alcun sostegno nelle evidenze scientifiche, e che oltretutto alimenta complottismi di ogni genere su una presunta “strategia del terrore”, o sulla malcelata volontà di mantenere elevato il numero dei positivi per confermare la necessità dello stato di emergenza.
Noi non vogliamo soffiare su questo fuoco. Siamo preoccupati per altre conseguenze di questa ostinazione. Non solo per i guariti che non vengono dichiarati tali, ma per il numero enorme di persone che, senza tanti giri di parole, ammettono di non voler utilizzare l’app di tracciamento per il timore di finire in isolamento per mesi, o che, per la stessa ragione, non accettano di sottoporsi al test sierologico della Croce Rossa.
Sappiamo di persone che non segnalano i propri sintomi, preferendo far finta di nulla piuttosto che venire esclusi dal mondo, e specialmente dal lavoro, per un periodo imprevedibilmente lungo. Sono comportamenti sconsiderati e pericolosi, ma che non si possono più ignorare, per il bene di tutti. Adottare un criterio più ragionevole, oltre che scientificamente consolidato, aiuterebbe senz’altro a ridurre questi casi, che rischiano altrimenti, in un’epidemia fatta per la stragrande maggioranza di pazienti asintomatici, paucisintomatici o con sintomi lievi, di far lievitare il numero di focolai, e di svilupparne mille altri non visti e non tracciati.
E c’è di più. Considerare questa malattia non come una breve, e per lo più blanda infezione, quale è, ma come un lungo stato di infettività, ci impedisce di riconoscere chi è veramente in grado di spargere il virus, e chi non lo è più. Ancora oggi si utilizzano i test sierologici per fare screening dei migranti arrivati con i barconi. E si programma di fare altrettanto con il personale scolastico in vista della riapertura di settembre. I test positivi vengono sottoposti a tampone, per poi isolare quelli positivi ad entrambi i test. Peccato che i pochi veri contagiosi sfuggano, perché negativi al test sierologico, non avendo ancora sviluppato gli anticorpi, mentre i sieropositivi abbiano già superato il periodo di contagiosità (lo sviluppo di anticorpi richiede mediamente 8-10 giorni) e sono viceversa immuni ormai, non contagiosi. Vogliamo esagerare? Attendiamo due settimane. Ma smettiamola di preoccuparci del tampone, guardiamo la malattia. Tutto avviene nei primissimi giorni, il resto del tempo non ha alcun effetto. Davvero vogliamo affrontare la riapertura delle scuole, e l’inverno, con l’influenza alle porte, isolando per mesi chiunque abbia il tampone positivo, cominciando da chi è immune?”
LE RACCOMANDAZIONI
“Poco cambia che si vogliano adottare i criteri dell’OMS o quelli del CDC americano, o le pratiche consolidate nel resto d’Europa. Le raccomandazioni, universalmente accettate, sono così riassumibili:
– Per la maggior parte delle persone con malattia COVID-19, l’isolamento e le precauzioni possono essere sospesi 10 giorni dopo l’insorgenza dei sintomi e la risoluzione della febbre per almeno 24 ore (senza l’uso di farmaci che riducono la febbre e con il miglioramento degli altri sintomi).
– Per un numero limitato di persone con malattia grave (che, pur raramente, può produrre un virus in grado di replicarsi oltre i 10 giorni), può essere giustificata l’estensione della durata dell’isolamento e delle precauzioni fino a 20 giorni dopo l’insorgenza dei sintomi.
– Per le persone che non sviluppano mai sintomi, l’isolamento e altre precauzioni possono essere sospesi 10 giorni dopo la data del loro primo tampone positivo.
– I test sierologici non devono essere utilizzati per stabilire la presenza o l’assenza di infezione o reinfezione da SARS-CoV-2.”
UN INVITO
“Da mesi ci battiamo su questo tema. Vi rimando ai tanti post che abbiamo pubblicato su Facebook, su questo profilo, e sulle Pillole di Ottimismo di Guido Silvestri. Sul sito www.ilsegnalatore.info troverete traccia del lungo lavoro che in questi mesi abbiamo fatto perché il decisore politico consideri le evidenze scientifiche che si sono accumulate. A breve, troverete pubblicato là anche questo stesso articolo, in modo che possiate condividerlo con chi non frequenta i social network.
La condivisione è importante, e vi invito a spargere queste parole (non mie, ma della comunità scientifica) il più ampiamente possibile. È l’unico modo che abbiamo per far sentire la nostra voce, e per convincere chi deve prendere decisioni al nostro posto che la cautela non può essere irrazionale, ed è tempo che si adattino le regole alla realtà, e non alla paura.”