Una solida letteratura scientifica[1][2] descrive il ruolo del particolato atmosferico quale efficace “carrier”, ovvero vettore di trasporto e diffusione per molti contaminanti chimici e biologici, inclusi i virus. Il particolato atmosferico, inoltre, costituisce un substrato che può permettere al virus di rimanere nell’aria in condizioni vitali per un certo tempo, nell’ordine di ore o giorni.
Un gruppo di ricercatori ha esaminato i dati pubblicati sui siti delle ARPA – le Agenzie regionali per la protezione ambientale – relativi a tutte le centraline di rilevamento attive sul territorio nazionale, registrando il numero di episodi di superamento dei limiti di legge (50 microg/m3 di concentrazione media giornaliera) nelle province italiane. Parallelamente, sono stati analizzati i casi di contagio da COVID-19 riportati sul sito della Protezione Civile. Dall’analisi si è evidenziata una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di PM10 registrati nel periodo tra il 10 e il 29 febbraio e il numero di casi infetti da COVID-19 aggiornati al 3 marzo (considerando un ritardo temporale intermedio relativo al periodo 10-29 febbraio di 14 giorni, approssimativamente pari al tempo di incubazione del virus fino alla identificazione della infezione contratta).
In Pianura padana si sono osservate le curve di espansione dell’infezione che hanno mostrato accelerazioni anomale, in evidente coincidenza, a distanza di 2 settimane, con le più elevate concentrazioni di particolato atmosferico, che hanno esercitato un’azione di boost, cioè di impulso alla diffusione virulenta dell’epidemia, come sottolinea Leonardo Setti dell’Università di Bologna: “Le alte concentrazioni di polveri registrate nel mese di febbraio in Pianura padana hanno prodotto un’accelerazione alla diffusione del COVID-19. L’effetto è più evidente in quelle province dove ci sono stati i primi focolai”.
Gli fa eco Gianluigi de Gennaro, dell’Università di Bari: “Le polveri stanno veicolando il virus. Fanno da carrier. Più ce ne sono, più si creano autostrade per i contagi. È necessario ridurre al minimo le emissioni, sperando in una meteorologia favorevole”.
“L’impatto dell’uomo sull’ambiente sta producendo ricadute sanitarie a tutti i livelli. Questa dura prova che stiamo affrontando a livello globale deve essere di monito per una futura rinascita in chiave realmente sostenibile, per il bene dell’umanità e del pianeta. In attesa del consolidarsi di evidenze a favore dell’ipotesi presentata, in ogni caso la concentrazione di polveri sottili potrebbe essere considerata un possibile indicatore o ‘marker’ indiretto della virulenza dell’epidemia da COVID-19. Inoltre, in base ai risultati dello studio in corso l’attuale distanza considerata di sicurezza potrebbe non essere sufficiente, soprattutto quando le concentrazioni di particolato atmosferico sono elevate”, aggiunge Alessandro Miani, Presidente della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA).
“Il Position Paper è frutto di un studio no-profit che vede insieme ricercatori ed esperti provenienti da diversi gruppi di ricerca italiani ed è indirizzato in particolar modo ai decisori”, conclude Grazia Perrone, docente di metodi di analisi chimiche della Statale di Milano.
[1] Ciencewicki J et al., 2007. “Air Pollution and Respiratory Viral Infection” Inhalation Toxicology, 19: 1135-1146
[2] Sedlmaier N., et al., 2009 “Generation of avian influenza virus (AIV) contaminated fecal fine particulate matter (PM2.5): Genome and infectivity detection and calculation of immission” Veterinary Microbiology 139, 156-164