Coronavirus, il virologo Palù spiega perché positivo non vuol dire malato o contagioso e perché non ha senso tracciare gli asintomatici

"Positivo non vuol dire ammalato e positivo non vuol dire contagioso. Ha senso inseguire e tracciare gli asintomatici, che sono la maggior parte?"
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Il professor Giorgio Palù, virologo, fondatore della Società Italiana di Virologia, presidente per 7 anni di quella europea con 3 premi Nobel al suo interno, parla della situazione in Italia legata all’epidemia di coronavirus in un video postato sulla pagina Facebook della trasmissione web Tanfuk. L’esperto fa alcune precisazioni molto importanti parlando di persone sintomatiche e asintomatiche e di cosa questo significhi sulla loro capacità o meno di contagiare altre persone.

Il termine sintomatico dimostra una persona che ha dei sintomi, dal mal di gola al mal di testa, alla congiuntivite, alla febbre, alla diarrea, alla perdita di olfatto e di gusto, ci può essere anche qualche sindrome neurologica, per non parlare di uno stato più avanzato. Questi sono i sintomi, che per larga misura sono simili a quelli dell’influenza. Quando noi parliamo di contagiati, usiamo un termine improprio, spiega Palù.

Foto Samara Heisz/Getty

Noi dovremmo parlare di soggetti positivi al test: ci sono i positivi che contagiano, i positivi che non contagiano. Positivo non vuol dire malato. Questi termini la gente deve comprenderli bene. Trovare un positivo vuol dire che io, dopo tanti cicli di amplificazione con una tecnica che si chiama PCR, ho un po’ di acido nucleico del virus, ma non è detto che quell’acido nucleico rappresenti una particelle virale infettante: può essere un residuo, un virus morto. Oppure non è detto che quell’acido nucleico sia rappresentante di una concentrazione di virus sufficiente a infettare. L’infezione è possibile quando troviamo in un campione clinico almeno 1 milione di genomi equivalenti. Oggi non abbiamo ancora un test che dosi precisamente la carica virale, come l’abbiamo per tanti altri virus, come l’HIV, il virus dell’epatite C, il virus dell’epatite B. Perché non l’abbiamo? Perché non abbiamo ancora un farmaco. Per i virus che ho appena citato abbiamo dei farmaci e sappiamo che dobbiamo dosare il farmaco fino ad azzerare oppure rendere minuscola quella concentrazione perché sappiamo che, per esempio, un soggetto che abbia 20 genomi equivalenti del sangue di HIV non è infettivo. Quello che stavo cercando di dire è che positivo non vuol dire ammalato e positivo non vuol dire contagioso”, aggiunge l’esperto.

Nello stato attuale, noi abbiamo circa 90.000 positivi in Italia in questo momento, con ricoverati 5.000, cioè il 6% (i dati si riferiscono a qualche giorno fa, ndr). A marzo-aprile era il 25% dei ricoverati. Molti di questi ricoverati adesso hanno sintomi lievi, alcuni sono ricoverati per ragioni sociali perché non hanno a casa nessuno, sono anziani, hanno paura, non hanno chi li assiste. Quindi è una situazione diversa. Ma ha senso inseguire e tracciare gli asintomatici, che sono la maggior parte? Con che tentativo? Di azzerare il contagio? Dal punto di vista razionale, è un non senso. Dal punto di vista scientifico, non è perseguibile e dal punto di vista pratico, con gli attuali tamponi e con i tempi medi di risposta di 4 giorni, non impatta su un’infezione che ha un tempo di incubazione di 1-2,5 giorni. Questo l’ha capito anche il Cts che ha detto che basta un tampone negativo per dare una persona per guarita o che si può ridurre la quarantena a 10 giorni. Quindi che senso ha in questa fase cercare gli asintomatici per cercare di limitare i contagi? Ha senso in cluster limitati quando il virus sta crescendo esponenzialmente. Aveva molto senso all’inizio della pandemia. Ha senso come lo fanno i cinesi, che in 100 giorni hanno visto il contagio azzerarsi e oggi si preoccupano che gli arrivi dall’esterno. Loro in questo momento stanno perseguendo il contagio zero perché ne hanno 1, 2, 3 da seguire, ma non il 95%”, conclude Palù.

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